Irene Buselli mi
ha conquistato in un pomeriggio di fine estate, quando aprì da sola
con la sua chitarra una manifestazione musicale nel centro storico
della mia città, Albenga, organizzata dall'Associazione Culturale
Zoo.
Fu la prima di tanti
artisti a suonare nel bellissimo centro storico ligure e io che non
l'avevo mai sentita nominare rimasi incantato davanti alla sua
bellezza e soprattutto alla sua bravura; una voce (non a caso)
sottile, un'ironia delicata e una manciata di canzoni fatte con
passione ed una leggerezza solo apparente.
Tutte caratteristiche che
ho ritrovato seguendola sui social, nei suoi progetti solisti e
collettivi, come Canta fino a dieci, insieme virtuoso e
talentuoso tutto al femminile con il quale esibirsi in piccoli locali
o davanti a monumenti romani in puro stile buskers.
È quindi con enorme
piacere che ho appreso dell'uscita del suo singolo e di conseguenza
dell'arrivo in un futuro prossimo del suo primo album. Piacere
aumentato insieme alla curiosità quando ho letto che al suo fianco
in questo lavoro ci saranno FiloQ e Raffaele Rebaudengo,
storico membro degli Gnu Quartet, entrambi già in cabina di
regia di Maqroll, capolavoro di Federico Sirianni,
finalista al Premo Tenco 2022.
L'attesa è stata
ampiamente ripagata, perchè Così sottile è un brano meraviglioso,
che racconta molto bene la cifra artistica di Irene e la sua capacità
come autrice.
Pubblicato da Pioggia
Rossa Dischi il 10 marzo, Così sottile riesce in 4 minuti scarsi a
raccontare una crescita, una evoluzione, una emancipazione; viene
automatico leggere questo brano dal punto di vista femminile, il che
lo rende un manifesto della volontà delle donne di non farsi
schiacciare, anche se l'importanza del suo messaggio va ben oltre le
differenze di genere.
Involontariamente
autobiografico, come lo definisce lei che afferma di averlo iniziato
a scrivere pensando ad altri e di essersi accorta di aver parlato di
sé stessa come mai in passato, il pezzo ha uno sviluppo che
coinvolge non solo il testo, ma anche la parte strumentale e
soprattutto quella vocale.
Giocato sui vari
significati possibili del termine sottile, il singolo inizia con un
filo di voce, quasi come se timidamente chiedesse attenzione, al
pubblico, ma anche ad un “altro” che è il destinatario delle sue
parole.
Dici che sono troppo
sottile
Con questi polsi
troppo sottili
E questa pelle troppo
sottile
E questa voce così
sottile
Che non urla mai
E vado troppo per il
sottile
Con questa bocca
troppo sottile
Faccio pensieri troppo
sottili
E ho un umorismo
troppo sottile
Che non rido mai
Troppo sottile non
lascio solchi
Non lascio traccia
dentro di te
Sottile scivolo tra le
dita
Come la sabbia, come
la vita
Una situazione di quasi
invisibilità, probabilmente imposta da altri, dentro la quale la
protagonista sembra quasi adagiarsi, rassegnata.
Ma com’è che ci si
diventa
Spessi abbastanza da
non sentire
Le tue unghie nella
mia carne
La mia carne così
sottile
Perché io sono troppo
sottile
Per farmi spazio tra i
tuoi pensieri
Eppure sono spessa
abbastanza
Anche stanotte contro
il tuo corpo
Nella tua stanza
Dall'invisibilità al
dolore, mentre si ipotizza nemmeno in modo troppo velato un abuso,
una violenza, mentale e fisica, da parte di chi sottovaluta,
sminuisce, svalorizza e si approfitta della presunta debolezza
altrui, considerandola alla stregua di un oggetto, un mero possesso;
ma lei inizia a realizzare che le cose non vadano bene e quindi
prende coscienza ed inizia a reagire.
Dici che sono troppo
sottile
E forse è vero,
perché mentire
Ma il mio entusiasmo
così sottile
E i miei sorrisi così
sottili
Parlano di te
Di quel tuo sguardo
pronto a sminuire
Ogni mio slancio come
infantile
Le tue parole pronte a
zittire
Questa mia voce così
sottile
Che forse non lo è
più
Starti vicino mi ha
assottigliata
Sono una lama, sono
affilata
E come la mina di una
matita
Più che sottile sono
appuntita
Ed è così che ci si
diventa
Spessi abbastanza da
non sentire
Le tue unghie nella
mia mente
La mia mente troppo
sottile
Perché tu non sei
così sottile
Da infilarti nelle mie
crepe
E non sei neanche
spesso abbastanza
Da trattenermi mentre
sottile
Scivolo fuori da
questa stanza
La voce di Irene da
“sottile” e quasi sussurrata diventa via via più forte, più
chiara, spalleggiata dagli strumenti che crescono come la
consapevolezza del proprio valore, come la grinta e la voglia di
uscire da questa stanza e da questa relazione tossica e velenosa.
Questo modo di utilizzare la voce rende perfettamente l'atmosfera
della canzone, creando un climax emotivo che coinvolge chi ascolta,
al punto che è decisamente impossibile non sostenerla in questo
percorso.
Da sottile, inteso come
debole, la protagonista diventa appuntita, tagliente, consapevole;
pronta a scrivere una storia nuova.
E ora mi guardi senza
capire
Tu mi credevi così
sottile
Eppure vedi non mi hai
spezzata
Né la mia voce né la
risata
E adesso penso quanto
è sottile
La luce che filtra
dalle fessure
Ripenso al buio della
tua stanza
Io che volevo essere
più spessa
E invece ero e sono
abbastanza
Mentre la musica ed il
cantato salgono ancora, la protagonista ha anche la forza di guardare
in faccia chi la voleva assottigliare e sbattergli in faccia la
differenza tra luce e buio, tra riso e sopraffazione e prima di tutto
tra essere sottile ed essere debole.
Ero e sono abbastanza:
un manifesto di autodeterminazione e consapevolezza in 4 parole,
senza il bisogno di urlare, uno slogan cantato con voce sottile ma
indelebile.
Irene Buselli ha 26
anni e vive a Genova. Ha sempre sognato di fare la scrittrice e
infatti, con granitica coerenza, ha finito per laurearsi in
Matematica. Così, forse per redimersi o forse per schizofrenia,
mentre di giorno si occupa di intelligenza artificiale, di notte
indaga quella umana scrivendo canzoni.
Nel 2019 ha pubblicato il
suo primo singolo Dai amore voglio un cane.
Nel 2023 uscirà il suo
primo album per Pioggia Rossa Dischi
Queste parole urlate da un anonimo finestrino di una macchina americana hanno, a suo dire, dato il via al processo di composizione che ha portato Bruce Springsteen alla pubblicazione, il 30 luglio 2002, di The Rising.
Parole urlate da un fan pochi giorni dopo l'11 settembre 2001, il giorno in cui l’America si è scoperta fragile, debole e spaventata.
Sul momento non ci pensai, ma anche io, lontano e al sicuro, avevo bisogno delle sue parole, delle sue canzoni, delle sue riflessioni.
Io, che quel giorno impiegai parecchio a capire cosa stava succedendo, al punto che quando il mio collega me lo venne a dire mentre stavo facendo diversi colloqui con i miei utenti, gli chiesi: ma ci sono dei morti?
Ricordo che la portata dell'evento mi fu chiara guardando mia nonna, ottantotto anni e due guerre mondiali vissute, con gli occhi spalancati dal terrore davanti a quelle immagini che tutti ricordiamo.
Molti sono gli artisti che da quel giorno hanno tratto ispirazione per i loro lavori, ma uno solo si è preoccupato non tanto di giudicare, di condannare, di polemizzare, bensì di raccontare, raccontare la gente, le sue paure, i suoi pensieri, anche quelli meno confessabili.
The Rising, a mio avviso, NON è un album sull'11 settembre, ma un album sul POST 11 settembre.
È un album sull'America, le sue contraddizioni, la sua forza, la sua debolezza, ma soprattutto la sua GENTE; è un disco pieno di gente: pompieri, vedove, amici di vedove e vedovi, uomini oscuri, uomini e donne anonime, amanti, figli.
È un disco, tra l'altro, che contiene diverse canzoni scritte PRIMA dell'11 settembre, ma che si adattano terribilmente bene all'atmosfera del disco.
L’America, la gente americana che aveva bisogno IN QUEL MOMENTO di Bruce e della sua musica, fanno da filo conduttore, seduti su un fantomatico lettino a confidarsi, a sfogarsi ad aprire il loro cuore a Bruce, che come forse nessun altro trasforma le emozioni popolari in poesia ed arte, rendendole universali.
Si chiama empatia e nessuno nel mondo della musica l'ha resa arte come lui
Solitudine come sentimento condiviso e comune in quei giorni negli states.
Questo lungo, lunghissimo 12 settembre è quindi un giorno solitario.
Come accadrà spesso nel corso dell'album, pur non schierandosi mai su posizioni “politiche” o di critica\analisi politica degli attentati, Bruce lascia che i protagonisti delle sue canzoni abbiano reazioni impulsive, emotive, non filtrate dalla razionalità o dalla riflessione, ma se mai stimolati dalla rabbia e dal dolore:
L'inferno sta mescolando il buio, il sole sta sorgendo
Questa tempesta infurierà da un momento all'altro
la casa è in fiamme la vipera è nel prato
Una piccola vendetta e anche questo passerà
La rabbia, lo sgomento, la tv accesa e ovunque le torri in fiamme, ma anche incredulità, dubbi, difficoltà ad accettare (perché ci odiano così tanto? Si chiedeva la gente americana in quei giorni).
Seme di tradimento, frutto amaro, la ferita è aperta e il sangue sgorga dolorosamente, ma, e anche questo è una caratteristica comune di tutto il disco, per ogni pensiero c'è una riflessione opposta o comunque lontana, quindi se viene spontaneo aspettarsi “una piccola vendetta”, pochi istanti dopo ci viene ricordato che sia “Meglio fare domande prima che tu spari”
Alti e bassi, rabbia e comprensione, riflessioni e autocritica, tante sono le carte sul tavolo, un turbinio di emozioni anche contrapposte.
Buon ascolto
Il sacrificio viene riconosciuto ed innalzato giustamente ad eroismo. Ma chi era a casa sapendo che un suo caro entrava là dentro, chiede la forza per capire, la speranza per continuare, chiede ancora un po' di quell'amore troncato.
Il cielo stava cadendo ed era striato di sangue
Ho sentito che mi chiamavi, ma sei scomparso nella polvere
Su per le scale, dentro il fuoco Su per le scale, dentro il fuoco
Ho bisogno del tuo bacio, ma l'amore e il dovere ti hanno chiamato in qualche posto più alto
Da qualche parte su per le scale, dentro il fuoco
Il protagonista di un gesto così definitivo lascia a chi lo piange fede, fiducia, forza, speranza e amore, anche in un momento dove è difficile, per chi ne aspettava il ritorno, per chi ne desidera il bacio, capire il perché di tutto questo. Il buio non avvolge solo il protagonista, ma anche la vita di chi lo aspettava a casa
Era buio, troppo buio per vedere, mi hai tenuto nella luce che davi
Hai teso le tue mani verso di me
E sei entrato nell'oscurità della tua tomba fumante
Ho trovato la foto del corpo che cadeva.
Era papà? Forse. Chiunque fosse, era qualcuno.
Ho strappato le pagine del libro, le ho rimesse in ordine al contrario in modo che l'ultima fosse la prima e la prima fosse l'ultima.
Le ho sfogliate velocemente, e sembrava che l'uomo stesse alzandosi in cielo.
E se avessi avuto altre fotografie sarebbe volato dentro una finestra, e dentro la torre, e il fumo sarebbe stato aspirato nel buco da cui l'aereo stava per uscire.
Papà avrebbe lasciato i suoi messaggi a rovescio finché la segreteria sarebbe stata vuota, e l'aereo sarebbe volato all'indietro, fino a Boston.
Papà avrebbe preso l'ascensore per scendere in strada e schiacciato il bottone per l'ultimo piano. Avrebbe camminato all'indietro fino alla Metro, e la Metro sarebbe andata indietro nel tunnel fino alla nostra fermata.
Papà avrebbe superato il tornello all'indietro, e poi fatto sfilare al contrario la sua tessera della metropolitana, e sarebbe tornato a casa camminando all'indietro mentre leggeva il New York Times da destra a sinistra.
Avrebbe sputato il caffè nella tazza, si sarebbe sporcato i denti e si sarebbe messo i peli in faccia con il rasoio. Sarebbe tornato a letto, la sveglia avrebbe suonato al contrario e lui avrebbe fatto i sogni al contrario.
Poi si sarebbe alzato, alla fine della sera prima del giorno più brutto. Sarebbe indietreggiato in camera mia fischiettando al contrario I am the Walrus.
Sarebbe stato nel letto con me. Avremmo guardato le stelle sul soffitto che avrebbero allontanato la loro luce dai nostri occhi.
Io avrei detto "Niente" alla rovescia.
Lui avrebbe detto "Sì, pulce?" alla rovescia. Io avrei detto "papà" alla rovescia, che non è così diverso da "papà" detto normalmente.
Mi avrebbe raccontato la storia del sesto distretto, dalla voce nel barattolo fino all'inizio, da "Ti amo" a "Una volta, ma tanto tempo fa".
E saremmo stati salvi.
(Jonathan Safran Foer: Molto forte, incredibilmente vicino)
Chi è sopravvissuto a cose del genere si chiede spesso, spessissimo perché? perché io si e gli altri no?
Non ricordo come mi sentivo
Non avrei mai pensato di sopravvivere
Per leggere di me sul giornale della mia città
Come la mia giovane e coraggiosa vita fosse cambiata per sempre
in una nebbiosa nuvola di vapor roseo
Vi mostrerò qualcosa che sia alla portata di tutti, perché quello che è successo non posso condividerlo.
Cara dammi il tuo bacio
Vieni e prendi la mia mano
Io sono l'uomo da niente
Mentre in Into the fire si reclama il bacio di chi non c'è più, chi sopravvive chiede di poterlo dare ancora, per dimostrare soprattutto a se stesso di essere vivo e magari trovare una risposta diversa alla domanda “chi sono io per essere ancora qui?” soprattutto ora che le cose sembrano tornate nella loro normalità, che la gente si sforza di tornare alla normalità e il blu del cielo non è più coperto dal fumo
Cara, con questo bacio dimmi che capisci, Io sono, l'uomo da niente
Oppure, come sostengono alcuni, l'uomo da niente semplicemente non riesce a sostenere il peso di tutto questo, pearl and silver indica una pistola con il manico di madreperla (o una lama), il protagonista pensa al suicidio perché non è solo la condivisione, ma la stessa sopravvivenza ad essergli impossibile e come nella scena de il Cacciatore, il coraggio che riesce a sfoggiare è quello di chi gioca alla roulette russa con la propria vita
Puoi chiamarmi Joe Offrirmi da bere e stringermi la mano
Tu vuoi coraggio Ti mostrerò il coraggio che puoi capire
perla e argento sul mio comodino
Sono solo io Signore, prego di esserne capace
Sbalzi di umore, sindrome maniaco-depressiva. Capita a tutti, figurarsi a chi ha vissuto tali tragedie. Un giorno aspetti il sole, l'altro pensi che non ci sarà nessun lieto fine, anzi nessuna favola.
Ma la canzone invita a credere, in sè stessi e nell'altro, nel nostro prossimo, nei nostri cari. Anche se non ci sono più, se mancano i baci, i contatti, le labbra e soprattutto, comprensibile sconforto, la fede.
Tutto quello che in Into the fire veniva lasciato da chi era scomparso, qui è di nuovo appiglio, ultima ancora di salvezza, unico indizio che forse un miracolo possa avvenire, ma il dubbio che sia solo una favola come la bella addormentata e che non ci sia spazio per un “e vissero felici e contenti” si insinua perfido ed ambiguo
E' una favola così tragica
Non c'è alcun principe che rompa l'incantesimo
Io non credo nella magia
Ma per te ci crederò, per te ci crederò
Se sono uno stupido, sarò uno stupido
Per te dolcezza
Ecco la prova che ogni giorno ci ricorda cosa è successo. Il buco. Non solo Ground Zero, con le sue macerie, ma un buco magari meno concreto ma altrettanto doloroso, che ci fa incazzare al punto da voler vendetta, che resta lì sospeso, a farci combattere tra il bene ed il male. Un cielo anche intimo, come quello che ognuno di noi ha dentro e dal quale eventi drammatici fanno scomparire pezzi anche grandi.
Mi sono svegliato questa mattina
Riuscivo a malapena respirare
Solo un cielo vuoto
Nel letto dove eri solita stare
Voglio un bacio dalle tue labbra
Voglio un occhio per occhio
ritorna forte, impulsivo, il desiderio di vendetta, con il riferimento biblico all'occhio per occhio, dente per dente (libro del Levitico cap. 24) che però va affiancato alla strofa conclusiva
Sulle pianure del Giordano
Ho tagliato il mio nodo dal legno
Il riferimento al fiume Giordano, dove venne battezzato Gesù rappresenta la speranza del passaggio dal vecchio al nuovo testamento, alla buona novella, per dirla con De Andrè, che Gesù portò nel mondo.
Down in the hole, traccia di High Hopes inizialmente prevista per The Rising riporta la mente ed il cuore degli ascoltatori ai tanti drammi collegati all'11 settembre.
Le tante, troppe famiglie che non hanno nemmeno avuto un corpo su cui piangere e grazie al quale provare ad elaborare il lutto.
The Rising fu un album, tra gli altri pregi, molto intelligente e delicato, che andò a parlare delle persone, non di massimi sistemi, di politica, di guerre, ma di persone, il pompiere, il sopravvissuto, la vedova, il terrorista; in questo senso, Down in the Hole rientra perfettamente nell'atmosfera di quell'album, da cui è stata esclusa forse perchè sembra una via di mezzo tra Into the fire e You're missing.
La normalità della vita spezzata da un dramma più grande di noi, un dramma che rende tutto diverso, anche le cose quotidiane.
Il sole arriva ogni mattina ma non è per niente amico, mi vesto e ci torno di nuovo.
La pioggia continua a cadere rovesciando ossa e sporcizia,
ho sepolto il mio cuore qui in questo male,
il fuoco continua a bruciare ma tu aspetti nel freddo.
Giù nel buco
Il buco, il cratere, il simbolo di una ferita così difficile da rimarginare, dentro al quale giacciono ossa e sporcizia, resti umani e brandelli di quello che fino a ieri era, tra le altre cose, un posto di lavoro per migliaia di persone. Un buco vero, fisico, che il protagonista vede come l'ostacolo per raggiungere chi non c'è più.
L’autunno scuro e sanguinante trafigge il mio cuore,
il ricordo del tuo bacio mi fa lacrimare.
Il cielo sopra si sta trasformando, il mondo sotto è diventato grigio,
ho pensato che avrei potuto girarmi e andare via, ma il fuoco continua a bruciare,
e io sto lavorando nel freddo, giù nel buco.
L'autunno che stava arrivando nel settembre 2001 magari non era così freddo come poi, intimamente, è diventato dopo; impossibile dimenticare, impossibile voltarsi e fingere che nulla sia accaduto, impossibile un ritorno alla normalità: quel buco è lì a ricordarci chi manca, a ricordarci cosa è successo, a spingerci a volerlo sfidare, per trovarci dentro chissà che consolazione.
C’è il brusio nella radio mentre passa i titoli e il vento nelle linee telefoniche,
il sole sulle spalle, il profilo di una città vuota,
il giorno lacera uno scuro e sanguinante cuore trafitto.
Non ho null’altro che il cuore e il cielo e il sole,
le cose che hai lasciato dietro, mi sveglio e trovo che la mia città è diventata nera.
I giorni continuano a susseguirsi e la tua voce continua a chiamare.
Scaverò finché non ti avrò trovata.
I fuochi continuano a bruciare e io sono qui con te nel freddo, giù nel buco.
Il dramma non è più episodio, ma diventa esistenza, la normalità è il dolore, il fuoco che mi brucia dentro è veleno, ma anche ossigeno per respirare; l'unica cosa che sembra avere senso è una cosa palesemente insensata, il tuo ritorno, da quel buco dove sei morto probabilmente sepolto vivo o magari sciolto, liquefatto, bruciato anche tu, dallo stesso fuoco che lentamente sta uccidendomi adesso.
Solo questo mi dà la possibilità di sentirti vivo, solo questo mi fa sentire vivo, sapermi con te, nel freddo, dentro al buco.
La bellezza del testo è unita agli effetti della voce che pian piano si schiarisce, quasi come se il protagonista lentamente tornasse all'aperto dopo essersi immerso nella fredda oscurità del "buco".
Non a caso, a mio avviso, una canzone del genere, con un testo del genere, basata sul dolore di una famiglia, vede per la prima volta ai cori l'intera famiglia Springsteen, oltre a Patti cantano infatti anche i loro tre figli, quasi a sottolineare come certe tragedie rafforzino il legame di chi resta e come sia la famiglia lo strumento principale per farsi forza.
Qui si inizia a ragionare sul dopo, sul “cosa possiamo fare ora?”. Sull'inevitabile avvicinamento di diversi dolori, spesso contrapposti. Qui sta la chiave del vero pacifismo, non di quello di facciata e da utilizzare a piacimento, no. Quello vero, che parte dal cuore e dal cervello, che prende coscienza delle distanze ma ritiene impossibile non provare ad annullarle. O la vita ci unisce o la morte continuerà a dividerci.
A volte la verità non è abbastanza
O è troppo in momenti come questo
Gettiamo via la verità, la troveremo in
questo bacio
Nella tua pelle sulla mia pelle,
nel battito dei nostri cuori
Che la vita ci dia un'altra possibilità,
prima che la morte ci separi
A chi è rimasto disgustato da questa canzone leggerina dico: vai a vedere dove è collocata, tra Worlds Apart e Further On.
Tra il tentativo di far riflettere gli americani sull'integrazione in QUEL PRECISO periodo storico e la storia di un uomo che si allontana dicendo che "noi risorgeremo, lo so", ma indossa stivali da cimitero e non sai se sia vivo o morto.
Due pezzi da 90, due colossi, ai quali serve tempo per essere metabolizzati.
Let's be friends è la pausa caffè, la boccata d'aria, la risata quasi isterica che ci prende per una battuta stupidissima, quando abbiamo appena finito di piangere; è splendidamente funzionale lì, in quel preciso momento.
La notte è buia ma noi risorgeremo in una mattinata di sole.
Testo da un lato carico di tensione in avanti, dall'altro ambiguo con diversi riferimenti alla morte ed appunto al buio.
Sono stato nel deserto passando il mio tempo
cercando nella polvere in cerca di un segno
se c'è una luce più avanti beh, amico, non lo so
ma ho questa febbre che mi brucia nell'anima
quindi prendiamo i tempi migliori cosi come vengono
e ti incontrerò più avanti sulla strada
Canzone precedente al 2001, che parla di fare i conti con la propria mortalità, con le difficoltà anche durissime che si incontrano sulla strada, sapendo però che la strada va sempre e solo in avanti. Ennesimo riferimento biblico (il deserto come luogo fisico e mentale di riflessione e fatica) per un brano che non è ottimista ma che all'ottimismo tende con disperata fiducia
«Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco».
(La strada - Cormac McCarthy)
L'uomo e la donna, la morte ed il sesso, il lutto e la passione.
Tutto rappresentato da una miccia che prepara ad un'esplosione, senza che si capisca se sarà un bene od un male.
Io e te, qui ed ora, nonostante tutto.
Ci siamo ancora, l'uno per l'altra, il funerale rappresentato dalla lunga fila di macchine nere, la cenere, la luna insanguinata non devono più condizionarci, non ora, spogliamoci e lasciamo che la miccia si consumi.
Si prende coscienza del lutto, lo si elabora a fatica, specialmente i moltissimi che non hanno avuto un cadavere su cui piangere e si va avanti, tenendo fede alle tradizioni.
A casa di Mary (nome più che presente nella discografia springsteeniana, nome comune adatto ad ogni donna, in modo che ogni donna ci si possa identificare) c'è la Veglia funebre, che in America è un rinfresco, dove si mangia insieme e si cerca di guardare avanti; la gente mi strappa un sorriso, balliamo amore, anche se non ci sei più, la folla che urla è la vita, che mi chiama, che vuole che torni a lei, sempre più forte, piangiamo, piangiamo pioggia, piangiamo tutta la pioggia, alza il volume, io sono viva.
Ho sognato mio padre, era il 1982
Paolo Rossi 3, Brasile 2
mi sollevava, urlando di gioia
Ho sognato mio padre, eravamo in macchina
guidavo io e litigavamo
come sempre, quando guidavo io
Ho sognato mio padre, partiti alle 4 da casa
per un esame che non avevo studiato
dormiva nel parcheggio, mentre io fallivo ancora
Ho sognato mio padre, il giorno del mio matrimonio
sorriso felice e giorno di festa
soddisfatto del mio vestito, comprato insieme a lui
Ho sognato mio padre, il giorno del suo funerale
respiro a fatica, groppo alla gola
io, mia sorella e la sua preghiera preferita
Ho sognato mio padre, fare il nonno con le mie figlie
guardarmi mentre mi fanno arrabbiare
e ridendo dirmi “te l'avevo detto che era un casino”
Sogno spesso mio padre
ci parliamo poco, come sempre
ma non ha mai fatto il nonno
e questo è il sogno che mi fa più male
(Alberto Calandriello)
Per Padre Antonio Spadaro, “Già vari teologi sia cattolici sia protestanti hanno notato come l’opera di Springsteen abbia una qualità ‘redentiva’: essa gioca i suoi simboli e i suoi temi principali (strada, macchina, oscurità, amore …) in una dialettica di perdizione e speranza, adoperando di frequente immagini e termini della tradizione biblica”. “The Boss”, ricorda Spadaro, “viene da una famiglia cattolica di radici italo-irlandesi, tuttavia il suo rapporto con la religione non è mai stato idilliaco. Egli ha fatto risalire il suo rifiuto della fede a un’esperienza negativa avuta da bambino”.
Ma, nota il critico, la sua ispirazione è “ricca di figure, termini e simboli di valore religioso”. Per il suo ultimo album ispirato agli eventi drammatici dell’11 settembre 2001, Springsteen ha scelto un titolo di per sé già evocativo, “The Rising”, “La Resurrezione”. Nel brano che dà il titolo alla raccolta, che vede come protagonista un pompiere che sta salendo per le scale di una delle torri gemelle, “il cammino dell’uomo sembra avvenire come sulla spinta di una vocazione e i pesi che ha sulle spalle diventano una vera e propria croce”, osserva Spadaro. “The Rising”, conclude “non è l’espressione di un semplice riscatto, un’ascesa, un ‘sollevarsi’, né unicamente un termine religioso. Si tratta di qualcosa di più complesso: qui, a nostro avviso, è la pratica dell’immaginario religioso a offrire linguaggio e simboli per dire l’esperienza universale del dolore della morte e dell’attesa di una risurrezione”.
Sepolta a fine disco perché forse per sollevarsi o risorgere prima bisogna passare da tutto quello che abbiamo ascoltato e di cui abbiamo parlato fino ad ora.
Adesso non è più solo la gente che parla, ma nel coro è Bruce che da la prima risposta al fan: avete bisogno di me? Datemi le vostre mani! UNITED WE STAND!
Si è sempre sballottati tra il cielo che porta oscurità e morte ed il sogno di una vita che va avanti, comunque.
Facciamolo per il protagonista delle strofe, che vede la sua Mary a casa, che porta con se il peso dell'armatura e la croce di chi va al sacrificio, facciamolo per loro.
Bruce qui racconta due storie, due protagonisti: il kamikaze nel mercato, che cerca un volto amato nella folla a cui sta per portare morte e la vedova della Virginia che giorno dopo giorno vive per sognare l'amore scomparso.
Entrambi anelano a un paradiso forse più mentale che religioso, specialmente la vedova, che lo aspetta per ricongiungersi a chi ha perduto.
Entrambi sembrano svegliarsi all'improvviso, chissà se in tempo per non farsi esplodere.
Ora possiamo anche parlare dell'altro, di chi è, cosa prova, cosa gli o le passa per la testa nella piazza affollata del mercato, mentre sta per raggiungere il paradiso. Canzone capolavoro perché fa in modo che l'ascoltatore entri in un punto di vista così difficile da capire senza minimamente parteggiare o schierarsi. Bruce ce lo fa fare perché vuole che tutto sia sul tavolo in questa partita, anche chi sceglie di dare e darsi la morte. Solo conoscendo possiamo capire e cambiare.
Secondo Alessandro Portelli nell'album l'enfasi è sul dolore della perdita, sul confronto con la morte e la tragedia. Non sventola la bandiera, non parla di eroismo.
Springsteen è l'unico a essersi fatto delle domande
Ha fatto qualcosa di analogo anche il country-rocker Steve Earle, pagandola molto cara.
Earle ha scritto John Walker's blues, dedicata all'americano che si era arruolato con i talebani, interrogandosi sui motivi che avevano portato questo ventenne a unirsi a dei fondamentalisti islamici contro il suo Paese.
La canzone è stata boicottata da tutte le radio e lui ha ricevuto forti critiche e anche minacce.
Bruce chiude con un gospel, una preghiera, un'invocazione.
Non è la congregazione sparita, non sono le finestre sbarrate, non è il cerchio rosso sangue il punto focale della canzone.
Il punto focale è che la città in rovine, dice Bruce, è MIA, io ci sono dentro, io vedo le puttane e gli sbandati, vedo le rovine, vedo le anime perse.
Ma tutto questo lo sento MIO e non lo lascio.
Avanti alziamoci, tutti quanti, COME ON RISE UP!
My City of Ruins: Bruce Springsteen e l’utopia fra le rovine
L’obiettivo di questo saggio è considerare come nel brano di Bruce Springsteen My City of Ruins la riflessione sulla New York post-11/09 si declini attraverso l’interazione tra il tema delle rovine e quello dell’utopia. In particolare, cerca di mettere in luce come, nel descrivere le conseguenze dell’11 settembre, il brano non descriva più le rovine simboliche di un passato straniero cui ispirarsi – come nei numerosi testi statunitensi ottocenteschi e novecenteschi sul Grand Tour – ma i segni autoctoni e irremovibili di un sogno americano ormai collassato che, secondo l’artista, può rivivere solo in una Promised Land utopica e spirituale.
Se l’obiettivo principale di The Rising è raccontare ed esprimere le emozioni dei sopravvissuti agli attacchi terroristici, con la sua apprezzabile caratura musicale e lirica, e con il suo raffinato coinvolgimento emotivo e religioso, My City of Ruins chiude significativamente l’album e lo riassume. Divisi in due parti ben distinte, sia da un punto di vista lirico sia musicale, i cinque minuti di cui si compone il brano – spiega Antonella D’Amore (2002: 16) – sono costruiti secondo un modello blues-gospel che bilancia emozioni e sentimenti contrastanti: paura, dolore e solitudine delle vittime nel
rock-blues della prima sezione; fede, volontà di non arrendersi e speranza di risollevarsi nel gospel della seconda.7 In particolare, la prima parte della canzone consta di tre strofe – ognuna delle quali si conclude con la ripresa del titolo – e di un ritornello costituito dalle parole: “Come on, rise up”.
La seconda parte è una preghiera – “questa è una preghiera per le nostre sorelle e per i nostri fratelli caduti”, spiega Springsteen prima della sua performance per il Telethon –; un canto gospel in cui la voce ufficiante ripete per ben diciotto volte l’espressione “With these hands” e la proposizione “I pray Lord”, prima di terminare con la ripresa del ritornello “Come on, rise up”
Dopo una soffocata rullata di batteria, i sommessi accordi delle chitarre acustiche e le malinconiche note dell’organo sembrano introdurre immediatamente l’ascoltatore nell’intimo universo del brano.
Le coordinate spazio-temporali sono vaghe e generiche, liricamente cupe e desolate, e l’immagine di un cerchio rosso sangue sul suolo freddo e scuro battuto dalla pioggia è imperscrutabile
Nel quinto verso, l’io lirico compare in prima persona mentre ascolta le note dell’organo fuoriuscire da una chiesa. La potenzialità uditiva del verso si scontra con l’impossibilità visiva del verso successivo poiché il protagonista non riesce a scorgere i partecipanti alla sacra funzione
Dopo un ritornello in cui i vari “Come on, rise up!” sembrano rivolgersi ai personaggi appena incontrati, la terza strofa riprende musicalmente le prime due, ma vi si discosta da un punto di vista più specificatamente narrativo:
Now's there's tears on the pillow
Darlin' where we slept
And you took my heart when you left
Without your sweet kiss
My soul is lost, my friend
Tell me how do I begin again?
La scena non è più urbana e il narratore non vaga più per la sua città a “filmare” eventi e personaggi.
Il tono diventa più intimo, la voce di Springsteen sembra affievolirsi, soprattutto dopo l’ondata di speranza sprigionata dal primo ritornello. Con un riferimento al tempo presente (“now”), ci si sposta nella camera del protagonista, mentre invoca la sua donna scomparsa.
Il lamento dell’innamorato è tragico e doloroso e la potenza retorica della domanda – “Come faccio a ricominciare?” – sembra legarlo non solo ai personaggi incontrati per strada ma a un’intera città che
cerca di risollevarsi.
Dopo aver descritto uomini persi tra voci e suoni misteriosi, in luoghi tetri e abbandonati, il brano cambia rotta e diventa una preghiera affinché Dio possa concedere a tutti la forza di reagire
Il cambio di registro non avviene solo a livello testuale, ma anche musicale: se nella prima parte del pezzo, infatti, la voce soffocata e calda di Springsteen in primo piano, delinea il clima angosciato e tragico della New York post-11/09, la seconda parte diventa un gospel carico di pathos e di speranza, in un continuo sovrapporsi di voci.
Con un andamento cadenzato e simmetrico, i versi legano la richiesta di aiuto al Signore – “I pray Lord”– alla necessità del contatto umano per reagire – “With these hands”. L’ultimo ritornello – “Come on, rise up” – sembra suggellare la definitiva volontà di rinascita fisica e spirituale.
Pur concludendo e condensando l’intero The Rising My City of Ruins fu scritta prima degli attentati terroristici dell’11/09/2001. Il pezzo, infatti, fu eseguito da Springsteen per la prima volta in occasione di un concerto a scopo benefico tenutosi il 18/12/2000 ad Asbury Park (nei pressi di Freehold, sua città natale), come una sorta di preghiera per la cittadina del New Jersey duramente provata da una profonda crisi sociale ed economica.
La mancanza di un qualsiasi riferimento di carattere spazio-temporale a New York City e agli attacchi terroristici, o ad Asbury Park e alla sua crisi, non solo fa coincidere i due scenari ma mostra come quelle tratteggiate da Springsteen per descrivere la distruzione e le rovine delle due città siano essenzialmente delle immagini topiche, declinate e adattate ai differenti contesti.
La musica rock ha sempre fornito un messaggio di solidarietà e di speranza durante i periodi di crisi, e Springsteen, come sostiene Simone Fortunato, ne è sempre stato uno degli interpreti principali:
In quasi trent’anni di carriera, Springsteen è diventato il cantore principe dell’America popolare, non solo degli oppressi e degli emarginati [...], ma anche della classe media, di quella normalità d’America che di solito non ha voce in capitolo. Di più, Bruce canta dell’uomo e all’uomo, in modo realistico e pieno.
Non gli risparmia le mancanze, le miserie e le povertà, ma nemmeno lo riduce a questo, svolgendo inni al suo infinito desiderio di verità, di bellezza e di gioia.
(Fortunato, 2002).
In fondo, prima di qualsiasi intento ideologico, culturale o politico, il rock di Springsteen si è sempre focalizzato e continua a focalizzarsi sulle persone, e se The Rising racconta una tragedia in cui “la devastazione resta sullo sfondo, mentre il dolore entra nella vita degli esseri umani” (Di Carlo, 2002), My City of Ruins, in particolare, “spinge gli ascoltatori a raccogliere il coraggio e la fede per andare avanti e per risollevarsi” (French, 2002).
The Rising è il dodicesimo album in studio di Bruce Springsteen, pubblicato il 30 luglio 2002 dalla Columbia Records.
È il primo album pubblicato dall'artista in sette anni, nonché il primo inciso con la E Street Band dopo diciotto anni. ProduttoreBrendan O'Brien
Sono stati pubblicati 3 singoli:
- The Rising
Pubblicato: 24 giugno 2002
- Lonesome Day
Pubblicato: 2 dicembre 2002
- Waitin' on a Sunny Day
Pubblicato: 22 aprile 2003
Il tour di supporto è durato dal 7 agosto 2002 al 4 ottobre 2003 per un totale di 120 concerti
hanno suonato nel disco:
Bruce Springsteen - voce, chitarra, armonica a bocca,
Quando ero bambino, il mio primo ricordo di Elvis sono un paio di cassette dei miei, di cui una si intitola GI Blues, che mia mamma ascoltava ogni tanto, con entusiasmo e facendomi capire che il cantante fosse uno bravo davvero.
Quando Ludovica era in seconda media, un pomeriggio mentre faceva i compiti di inglese mi portò il libro tutta contenta perchè "papà parlano di musica!" e mi fece vedere la pagina dove una foto di Elvis in tenuta e posa da jailhouse rock era corredata dalla didascalia "Elvis: a king of rock and roll!". Come "A king" esclamai, Elvis è THE KING!!
Tra un aneddoto e l'altro io sono cresciuto, invecchiato e diventato straordinariamente insofferente e polemico, ma soprattutto ho ascoltato quintali di musica e quella di Elvis, da GI Blues in poi, c'è sempre stata.
Come molti fans di Elvis quindi, l'annuncio del film di Baz Luhrmann mi aveva più preoccupato che incuriosito, temendo l'ennesimo scempio, memore delle versioni dance e di un tot di altre cose.
Nemmeno la presenza di Tom Hanks mi aveva tranquillizzato più di tanto, però ahimè, son cose che succedono, pazienza.
L'uscita del primo trailer invece mi colpì in positivo: la scena della funzione religiosa dove Elvis bambino viene rapito dal gospel era proprio forte ed ehi! ehi! ehi! il momento in cui attacca a cantare davanti ad una platea muta che lo fissa come un alieno mi piaceva ancora di più!
Ma non tanto per l'attore e le sue mosse, ma perché era fatta in modo da amplificare le reazioni del pubblico, in special modo femminile. Mi venne subito in mente il libro di Guralnick "L'ultimo treno per Memphis", che racconta quel momento in un modo talmente realistico che leggendo ti sembra di essere lì sotto a quel tendone, assordato dalle urla isteriche di ragazzine che stavano provando qualcosa mai provato prima, che intuivano non essere da ragazze per bene, ma che trovavano irresistibile.
Leggendo quelle righe potevi sentire le mutandine di quelle spettatrici bagnarsi, ecco, l'ho detto, modo migliore non l'ho trovato.
Niente, sto film iniziava ad interessarmi, Tom Hanks era finalmente un valore aggiunto, l'attesa cresceva.
Non ultimo, il fatto che la storia fosse narrata dal punto di vista del Colonnello Parker era ulteriore benzina sul fuoco.
Sono andato a vederlo con mia figlia Ludovica, che ricorda benissimo quel libro di inglese così "sbagliato" e ne siamo usciti entusiasti.
La prima parte della carriera, fino al servizio militare, mantiene le promesse del trailer, è rumorosa, enfatica, esagerata come del resto è stata la vita di Elvis, poi si trasforma quasi in un blues, come quello che Elvis stesso suona alla chitarra mentre tutta la famiglia è davanti al caminetto nei giorni precedenti alla partenza per la Germania.
L'idea di dare a Parker il compito di narratore è felice e paracula il giusto, perché consente salti, tagli e giravolte temporali che in questo modo non mi hanno infastidito, ma hanno assunto significati precisi, come del resto il modo sottile in cui al "narratore" Parker pian piano vengono attribuite molte se non tutte le colpe del finale della storia, a partire dalla stessa chiamata alle armi, che sembra quasi una punizione per avergli disobbedito.
Dalla morte della madre poi appare chiaro come più che narratore, Parker sia il burattinaio che convince tutti, a partire da Elvis e Vernon (odiosissima la scena post-funerale dove in pratica si fa chiedere di occuparsi di tutto) di fare come dice lui e basta.
La fobia della sicurezza diventa la scusa per evitare quel tour all'estero che lo avrebbe allontanato da Las Vegas quando invece lo aveva già venduto e che portò Elvis ad esasperazioni folli e così via fino al discorso finale in cui Parker dà la colpa della morte del Re al "troppo amore per il pubblico" e nessuno può credergli, né tantomeno assolverlo.
Due momenti a mio avviso superlativi sono le esibizioni live da Las Vegas (il debutto all'International Hotel) e Indianapolis 77.
Nella scena di Las Vegas Butler si supera, ricreando con espressioni e mosse una situazione assolutamente realistica e trasmettendo in modo chiaro quella che era l'emozione e la voglia di Elvis in quella che pensava fosse un'anteprima della tournée in Europa e Giappone; allo stesso modo l'episodio della (presunta?) aggressione sempre all'Hotel è molto molto veritiera.
Non ho potuto non fare il paragone con un altro film a tema musicale dove l'attore protagonista ha vinto (a mio avviso immeritatamente) l'Oscar: Bohemian Rhapsody.
Lasciamo stare i due personaggi, pensiamo agli attori: Butler entra dentro ad Elvis, gli sguardi, la grinta, l'entusiasmo durante le prove sono tangibili, i video d'epoca ci rimandano un Elvis molto simile a quello di Butler e alla fine della lunga sequenza ci sembra di essere stati davvero ad un suo concerto.
Rami Malek fa salire Freddie Mercury sul palco del Live Aid con gli occhi spalancati e la bocca semi aperta, ma chiunque abbia visto qualche spezzone live dei Queen (in special modo di quel concerto) sa bene che Freddie saliva sul palco con una sfrontatezza devastante e guardava il pubblico con la presunzione di averlo in pugno ed una espressione che significava "adesso vi spacco in due!", Malek nel film dedicato più ai denti di Freddie che alla sua carriera, mi rimanda l'immagine di un adolescente cresciuto negli anni 80 a cui viene mostrato per la prima volta YouPorn (può contenere tracce autobiografiche): più che sfrontatezza è un costante "Oddioddioddiodioddio" che a me sembra decisamente stonato, parlando di chi teneva stadi interi per i coglioni e faceva cantare gorgheggi senza senso a 60\70mila persone.
Indianapolis 77 poi.
Giuro che se mi avessero chiesto come avrei fatto finire un film del genere, avrei scelto quella scena: Unchained melody, 26 giugno 77, ultimo concerto.
Elvis è grasso, sfatto e fatto, sudato, arranca e ansima, lo staff attorno a lui è pronto ad intervenire e la gente in sala forse è lì per vedere il Re che muore sul palco.
Ma lui nonostante tutto, a sprazzi, ma riesce ad entrare nella canzone a suo modo e quando lo fa è lui il primo a gioirne e guarda il tizio che gli regge il microfono con l'espressione che vuol dire "cazzo, ce la faccio ancora, sono ancora il Re!"
C'è tutta la seconda parte della sua carriera in quei momenti, il suo enorme talento, che emerge nonostante da anni fosse sepolto da droghe, abusi, allucinazioni e fissazioni assurde (che il film suggerisce essere state "indotte") e l'emozione, vera, fortissima, di chi per pochi secondi riesce a sentirsi nuovamente quello di un tempo.
Momenti gloriosi e drammatici, estremi, perché estremo è stato lui per primo; Elvis, l'alfa e l'omega dello show business, il Re, colui che ha preso una musica da "peccatori" e l'ha regalata al mondo intero, lui che cantava con estasi divina e erotismo a bomba, contemporaneamente, lui che come dice Springsteen "fece capire all'America che esistesse vita, dal bacino in giù".
Seduto al pianoforte, fasciato in un vestito ogni sera più stretto, il Re prova a non abdicare, almeno per la durata di un singolo pezzo.
"Aspettami, aspettami, tornerò a casa, aspettami" canta mentre Capitan Marvel corre alternandosi tra una messa gospel ed un buco dove si balla avvinghiati, alternandosi tra il sacro e il profano, essendo lui stesso un continuo alternarsi di sacro e profano.
Ho pianto durante questa scena, prima ancora che le immagini si fondessero con i filmati dell'epoca, riportandoci alla dura realtà che si, il nostro supereroe se ne fosse andato.
Ho amato questo film, molto, spero di rivederlo e accorgermi di cose che potrebbero essermi sfuggite.
C'è una frase di John Lennon che cito spesso: "Prima di Elvis non c'era nulla"; ecco, io con tutto il rispetto per Lennon, sta frase la capovolgerei: "Dopo Elvis non c'è stato più nulla", perché nel bene e nel male poco se non nulla è stato inventato dopo di lui, poco se non nulla è stato fatto senza che lui lo facesse per primo.
Ultima cosa: se andate a vedere il film per sentire i Maneskin dovrete aspettare tutti, ma proprio tutti i titoli di coda, se non andate a vedere il film per non sentire i Maneskin, peggio per voi.
Tornando a casa mia figlia mi ha detto che se fosse nata a quei tempi sarebbe stata sicuramente una sua grande fan e soprattutto ha detto una cosa che combacia perfettamente col mio pensiero di poche righe fa: sti ragazzetti di oggi che si toccano il pacco non sanno mica come si balla in modo provocante.
Dall'altra parte del fiume, rispetto a casa dei miei suoceri, c'è una casa bianca, proprio di fronte.
La conosco da quando ho iniziato a frequentare mia moglie, prima ancora di salire a casa dei suoi, quando passavamo da lì per andare a casa sua.
All'inizio non ci avevo fatto caso, poi mi accorsi che sul terrazzo della casa al di là del fiume c'era qualcuno, c'era sempre qualcuno quando arrivavo; dopo un po' compresi che non erano tanto i due signori che ci vivevano a stare di vedetta, ma i figli e soprattutto i nipoti, che avevano intuito qualcosa su quel tizio con la macchina grigia che veniva sempre più di frequente.
Coi mesi e gli anni, ovviamente, la casa al di là del fiume divenne "la casa di Nonno Giacomo e Nonna Gianna", i genitori di mio cognato, che come quelli di mia moglie avevano questa posizione strategica sul paese.
Di vedetta c'erano i miei cognati e i due figli, curiosi di sapere chi fosse il nuovo ragazzo di Zia Simona, con cui feci la conoscenza "ufficiale" dopo qualche tempo.
Alla fine capivo distintamente i movimenti sul terrazzo, di chi si sporgeva per vedere e poi faceva finta di nulla.
Per anni, la casa al di là del fiume era la prima cosa che guardavo appena arrivato dalla mia fidanzata, appena sceso dalla macchina, appena tornato dal lavoro quando casa di Simona divenne anche casa mia. Chiunque fosse quell'ombra distante, ci scambiavamo sempre un saluto, un nipote, un cognato, un nonno, che importa, la casa al di là del fiume era sempre abitata, sempre aperta, sempre piena d'amore, come toccai con mano quando ci entrai.
Su quel terrazzo mangiai le lumache più buone che abbia mai assaggiato, offerte dalla Nonna Gianna, che per prepararle lavorava almeno due giorni.
Nonno Giacomo era la memoria storica della vallata, ogni volta che passava a trovare i consuoceri era come leggere un'enciclopedia, un libro di storia, come avere Piero e Alberto Angela in giardino che raccontano dei tesori della memoria, come solo i paesi dell'entroterra sanno custodire e tramandare.
Intanto che lui raccontava, Nonna Gianna e mia suocera parlavano di cucina, si scambiavano ricette, e Nonna Gianna sorrideva, io non penso di averla mai vista senza il suo sorriso, dolce, affettuoso, un vero "sorriso da nonna" che lei regalava non solo ai suoi nipoti, generosa di cuore nella vita come ai fornelli.
Da un mese circa, la casa al di là del fiume è chiusa, Nonno Giacomo se n'è andato qualche anno fa, Nonna Gianna lo ha raggiunto da poco, spegnendosi lentamente, forse dal momento in cui era rimasta vedova. Li immagino sereni che "ratellano" come si dice in ligure, con lei che lo rimprovera, ma sempre col suo dolcissimo sorriso.
Non c'è occasione in cui, andando dai miei suoceri, io non alzi lo sguardo per vedere la casa al di là del fiume.
Si, è chiusa, ma se faccio attenzione sento il vociare e le risate di bambini curiosi e soprattutto ho nel naso l'odore di lumache e dell'amore che l'ha riempita per tanti tanti anni.
Nel mese di febbraio 1994
avevo appena iniziato il mio primo anno di tirocinio professionale,
presso un Servizio di Salute Mentale di Genova.
Mi ero recato presso l'ex ospedale psichiatrico di Genova Quarto, dove con cadenza mensile
tutti gli assistenti sociali dei Servizi di Salute Mentale genovesi
si riunivano per un incontro di coordinamento.
Non avevo ancora imparato
uno dei cardini della professione, cioè che l'assistente sociale è
sempre in ritardo, né ancora conoscevo bene la città, quindi ero
arrivato con un certo anticipo e per ingannare l'attesa avevo cercato
all'interno della struttura un bar per un caffè.
Trovai un bar gestito
e frequentato praticamente solo da ex utenti dell'ex ospedale
psichiatrico. Bevvi il mio caffè più rapidamente possibile e uscii, con negli occhi e nel cuore delle immagini che ancora
adesso non mi hanno abbandonato. Si può essere morti pur vivendo? Si
può guardare senza vedere? Si può rappresentare il vuoto dell'anima
e del cuore? In quei 5 minuti passati in compagnia di quelle (ex?)
persone ho trovato purtroppo le risposte a queste domande.
Persone abbandonate,
svuotate, appoggiate su una sedia, ecco il mio impatto con gli utenti
della Salute Mentale, ecco il “manicomio”, ecco uno spaccato del
disagio che stavo studiando come affrontare, che avevo scelto come
oggetto della mia futura vita lavorativa.
Nessuna differenza tra
chi stava da una parte o dall'altra del bancone, a parte la (minima)
capacità di fare un (pessimo) caffè. Chissà, forse quella era la
caratteristica che faceva del barista un qualcuno, qualcuno che
spiccava tra gli altri compagni.
Al di là delle battute
sull'arrivare in ritardo, quel giorno ho imparato due cose, che
ancora oggi mi sforzo di avere sempre a mente, soprattutto al lavoro.
La prima è che comunque
vada la mia vita, difficilmente e raramente avrò il diritto di
lamentarmene, soprattutto per motivi futili e banali.
La seconda è che nessuna
malattia, fisica, psichica o, perché no, sociale deve ridurre un
uomo e la sua dignità in uno stato come quello degli avventori di
quel maledetto bar.
Nell'ottobre 2003, nel
Comune dove stavo lavorando, viene ricoverato G.
G è quello che in
passato era definito “il matto del paese”, persona con evidente
ritardo mentale (ha 48 anni e ne dimostra 10), ma amata da tutti, da
tutti aiutata e rispettata. G viene da una vita di insulti, minacce e
botte, che se non lo hanno ridotto così da sole, forse ne sono una
delle principali concause.
L'ufficio servizi sociali
è per G la sua seconda casa, qui lavorano le due assistenti
domiciliari che lo vanno a trovare ogni giorno, qui ci siamo io ed il
mio collega a cui puntualmente ogni lunedì G viene a raccontare il
Gran Premio di Formula 1 del giorno prima.
Io e G siamo andati
insieme a comprargli le scarpe da ginnastica, siamo andati insieme a
comprargli l'orologio nuovo, il televisore.
Io e G quando lo avevano
dimesso dopo un breve ricovero avevamo fatto il giro del paese
suonando il clacson perché tutti sapessero che era tornato.
G sta male e viene
ricoverato; mentre aspettiamo l'ambulanza, sdraiato sul pavimento
dove ha dormito tutta la notte perché non riusciva né ad alzarsi,
né a chiedere aiuto, G piange e mi tiene la mano (spesso penso a lui
anche oggi come il figlio maschio che non ho ancora avuto).
Cerco di consolarlo e
quando lo caricano sull'ambulanza lui, rasserenato, mi dice che si,
ho ragione, tornerà a casa meglio di prima “perché ormai ho
una certa età e mi devo trovare una moglie ed un lavoro”.
Una moglie ed un lavoro.
Per farsi forza, G sognava queste due cose, una famiglia e qualcosa
da fare durante il giorno.
G, che purtroppo a casa
non ci è più tornato, nella sua mente ingenua aveva comunque chiaro
cosa voleva dire “essere adulti”. Il lavoro è “una cosa da
grandi”, il lavoro ti rende adulto. E normale.
Nel mese di marzo 2009
sono a Torino per una serata con gli amici; un gruppo di loro suona
le canzoni di Bruce Springsteen, in un circolo in centro.
Il Caffè Basaglia lo
conosco così, grazie ai miei amici ed alla mia passione per la
musica.
Ma il Basaglia, scopro
quella sera, è molto di più. Circolo ARCI, nato e coordinato da uno
psichiatra, gestito unicamente da suoi ex pazienti.
Così tra una birra ed
una canzone li vedo all'opera, camerieri, baristi, cuochi.
E subito penso al bar di
Genova Quarto, dove aleggiava la morte se non del corpo, sicuramente
dell'anima; mentre qui il barista oltre a fare un caffè migliore, ha
stampata in fronte la gioia di essere lì in quel preciso momento a
fare quelle precise cose.
Mentre uno dei camerieri
mi confessa in segreto di essere il figlio di Al Bano e che uno dei
cuochi in realtà è Osama Bin Laden, penso a G, alla sua voglia di
essere in mezzo alla gente, di parlare, raccontare, scherzare,
giocare.
Come mai è così
importante lavorare? Certo, senza soldi non si va avanti, ma davvero
è solo questo il motivo?
Molto spesso parlo del
mio lavoro sotto due punti di vista.
Il primo è il fatto
lampante, che io sono un dipendente pubblico, il che mi porta ad
essere oggetto di battute e luoghi comuni sul fare poco e niente,
sull'aspettare il 27 del mese.
Però spesso sottolineo
maggiormente l'aspetto “morale” del mio lavoro e la fortuna che
ho nello svolgerlo. Fortuna, e non merito, perché il mio lavoro,
grazie alle situazioni che mi fa affrontare, alle persone che mi fa
conoscere, mi ricorda sempre quanto io sia comunque un privilegiato e
mi aiuta a capire quali siano le cose davvero importanti nella vita.
Ma è così per tutti?
Spesso, quando il lavoro
mi pesa, quando la giornata sembra non finire mai, cerco di ricordare
almeno un paio degli episodi che ho raccontato sopra, per capire
realmente chi sono e quanta fatica sto facendo.
Il lavoro di per sé è
comunque uno status.
Tu sei in quanto lavori.
Tu sei in quanto fai.
Tu sei in quanto produci
(e spesso tu sei in quanto consumi).
Se queste regole sono
valide per tutti, a maggior ragione lo sono per chi deve lottare per
guadagnarsi quantomeno lo status di “normale”, male che vada di
“solo un po' strano”.
Se queste regole sono
vere, per loro valgono molto di più, perché il lavoro è uno
strumento con il quale cambiare la propria condizione, con il quale
cambiare il modo in cui si appare agli altri, il loro status, spesso
addirittura la loro vita.
L'aspetto economico forse
ha un ruolo limitato in questo discorso, forse assume importanza solo
ad un livello più “alto”; fatto sta che “il lavoro” è una
patente che ci permette di entrare in posti ed in situazioni magari
sempre soltanto immaginati.
Così come anni fa c'era
il mito del “posto fisso”, ora è forte la suggestione
dell'indipendenza, soprattutto economica. Tale suggestione non può
non riflettersi su ogni fascia di popolazione, anche le più deboli,
anche le più bisognose di protezione.
Al giorno d'oggi, tanto è
forte il mito del lavoro, quanto lo è la crisi che attanaglia il suo
mondo.
L'immobilismo in cui
sembra versare in modo irreversibile il nostro paese rende una sfida
difficilissima l'ottenimento di un lavoro che renda davvero autonomi
e che, parlando da un punto di vista “professionale”, metta in
grado la persona di autodeterminarsi.
Così, lo stesso concetto
di “fasce protette”, sotto la cui ala si riparavano molte
categorie, tra cui i pazienti psichiatrici, sta perdendo non solo
importanza, ma urgenza, significato e priorità.
In un mondo che non
assicura un lavoro a chi compie percorsi scolastici a volte
decennali, come si possono tutelare le fasce protette? Che spazi, che
mansioni possono essere dedicate a loro, senza sottrarle ad altri,
magari più titolati?
All'interno della
drammatica partita che generazioni intere stanno giocando per
ritagliarsi un ruolo lavorativo, si corre il rischio di considerare
automaticamente “in panchina” chi non è in grado di fare da
solo.
L'importanza della
riabilitazione spinge dunque a chiedersi se e quanto il lavoro sia
utile, specie alle attuali condizioni. Credo sia doveroso affrontare
questi temi, con lo sguardo privilegiato di chi cerca di occuparsene,
insieme ai servizi specialistici.
Del resto, penso di
essere in debito, con G e con i baristi, camerieri e clienti, di
circoli o bar all'interno di ex ospedali psichiatrici.