Non mi ricordo se ho avuto occasione di dirvi che recentemente sono stata a New York.
Sempre nella vita si ha bisogno di un viaggio a Ny. In alcuni momenti, però, se ne ha bisogno e lo si merita più che in altri. Questo era appunto uno di quei momenti. Per cui fuck it, let’s go to New York.
Del viaggio non vi dirò, che potrei dire?
Invece, visto che da millenni non scrivo a proposito di un concerto, vi parlerò del concerto di Billy Joel. Perché mi va di scriverne e perché nessuno è obbligato a leggere, guarda un po’ che bella combinazione!
Dovete sapere che da anni andavo ripetendo “mi piacerebbe vedere Billy Joel in concerto”. Non che lo ripetessi sistematicamente come un mantra, certo: era più una frase sospirata con tono di malinconico desiderio che saltava fuori durante conversazioni di stampo musicale “……eh….uno che mi piacerebbe tanto vedere in concerto è Billy Joel….eh…”.
E guarda un po’ il caso: ecco che Billy Joel suona a New York proprio quando io decido di andarci. Ah, fato sublime e misterioso che incastri a meraviglia i tasselli della nostra vita, creando un puzzle variopinto come un 2000 pezzi con il castello di Neuschwanstein! E’ un po’ come quella volta, e stiamo parlando di un importante somma di anni fa, quando la frase che ripetevo spesso in conversazioni come sopra era “eh…mi piacerebbe tanto incontrare Kevin Spacey..eh…”. E dillo una volta, e dillo un’altra volta, ecco che nella mia prima vacanza a New York scopro che Spacey recita a teatro proprio sotto il mio albergo. Tombola! Signor Fato, tu mi sai. Vedo Spacey, lo incontro fuori dal teatro, foto, autografo. Alè, andata. Locandina con tanto di autografo che va a fare bella mostra di sé sul muro di casa mia senza che, peraltro, in tutti questi anni a qualcuno sia mai venuto in mente di chiedere notizie quel quadro con uno scarabocchio sotto. Avvilente, non vi pare, esibire della memorabilia con così scarsi risultati?
Quindi vorresti dire, cara Anna, che quell’incontro ti ha cambiato la vita? Ma manco per niente. Ho giusto un quadro su una parete e ho ‘sto aneddoto da tirare fuori quando voglio fare della filosofia spicciola e come prova dell’esistenza del Fato benevolo. A furia di dirle le cose accadono.
Per farle accadere, però, bisogna andare a New York. È là che succedono le cose. Ostinarsi per anni nella tratta Trofarello/Bricheraio (dico per dire) non è che apra ‘sto gran ventaglio di possibilità, mi spiace ammetterlo.
Ed ecco che in un niente la nostra eroina si trova seduta al Madison Square Garden. Ohibò! Quanta emozione. Al Madison mi ci aveva portato anni fa mia sorella a vedere i Pearl Jam. Mi ero molto divertita, gran carica quei giovanotti. Solo che, vedete, io i Pearl Jam li conosco poco. Non mi sono molto impegnata su questo fronte musicale, devo ammetterlo. Per cui quel concerto fu spettacolare e memorabile ma senza quegli effetti devastanti che sanno godersi solo fans vere come Stefania o Angela, per esempio. Diciamo che mancava l’aspetto emozionale. E nei concerti, come nella vita, è l’aspetto emozionale che fa la differenza. Adesso scusate un attimo che mi salvo questa frase negli appunti per poterla riciclare alla prima occasione in qualche dibattito sui luoghi comuni: direi che suona benino.
Dunque diciamo che con Billy Joel l’aspetto emozionale non deficitava. Io lo amo, fine.
Allora, ci arriviamo a ‘sto concerto?? Ma beata gioventù, che vi devo dire? Gran classe, gran gigioneria, gran divertimento. Ha giocato con il pubblico, con sé stesso e con i musicisti. Ha ruffianato, incantato, divertito, incatenato e fatto un sol boccone di tutto il Madison. E ha fatto della gran magia. New York City state of mind, e giù avanti pesante attraverso The enterteiner, Uptown girl avanti a valanga fino all’apoteosi di Piano man. Il Greatest Hits, per fortuna! Il Madison che sembrava Las Vegas, inondato da una pioggia di luci molto suggestiva, musicisti di gran classe (compresa la tipa che suona anche con Bruce, avrei dovuto essere più preparata…). Le mani che volano sul pianoforte, la voce che non è più quella del ragazzino imberbe e pertanto è ancora più affascinate. Pubblico fuori di melone, che non mi si venga a dire che gli americani non si divertono. Il tizio dietro di me in delirio per tutto il tempo con voce stridula (Billy, you are a geeeeeeeeeniiiiiiiiius!!): avrei voluto avere la borsetta di Julia, quella dei fumetti, una borsetta con dentro un posacenere di alabastro, per tirargliela sui denti. Però poi ho riflettuto sul fatto il tipo si divertiva, che tutti intorno a lui si divertivano, che io rischio di diventare brutalmente acida. E non voglio. E così mi sono rilassata e ho strillato anche io. E’ stato molto più divertente e apre prospettive meno tese per la futura menopausa.
Poi io non è che sappia proprio bene tutte le canzoni, eh! Ho fatto quello che faccio ai concerti di Bruce: ho tenuto le vocali lunghe. Fa molta scena ed è meglio di la la la… E’ andata bene fino allo scorso anno, quando la Inner Sabri mi ha sgamata. “Ma come, non sai il testo di Spirit in the night??” “Eh,no…” “Ma sei hai cantato tutto il tempo?!!” “Non cantavo: tenevo le vocali lunghe…”
Che altro vi devo dire? E’ stato bello, tutto. Per cui non mi resta che dire grazie ai miei amici per il supporto.
Grazie al mio amico Bill de Blasio per essersi fatto fotografare durante il Gay Pride.
Grazie al mio amico Billy Joel perché è sempre un piano man di gran classe.
Grazie al mio amico Bill Starbucks per la massiccia fornitura di caffè.
Grazie al mio amico Billy Steve McCurry per i colori e sempre e comunque, a prescindere.
Grazie ai costumisti, ai truccatori, ai tecnici, ai taxisti, agli homeless, ai turisti, a chi mi ha chiesto ripetutamente informazioni, alla cameriera dell’albergo, a chi ha deciso che la cipolla cruda sta bene con tutto e se ci metti un mese a digerirla sono fatti tuoi, alle creme di Victoria e ai libri di Strand, ai marciapiedi belli larghi senza cacche di cane. Grazie alla mia famiglia, al mio cane e ai miei gatti.
God bless America. God bless you all. United we stand. Yes, we can. Oh, yeah!
E comunque, This is the time to remember.
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