mercoledì 5 novembre 2014

Albenga, l'alluvione del 5 novembre 1994


Era sabato, lo ricordo bene, era un sabato di novembre ed allora, 20 anni fa, era normale che i sabati di novembre, che i giorni di novembre, fossero piovosi.
Il 5 novembre 1994 era un sabato e come tutti i sabati avevamo fatto riunione con i Lupetti, in quella sede SOTTO la strada, nello scantinato, una sede che ospitava uno dei Branchi di Lupetti più vecchi d'Italia e che resisteva da molti anni.
A causa della pioggia, che cadeva da almeno un paio di giorni, saltò la partita del sabato, la madre di tutte le partite, quella da cui, trascinandoci fino quasi ai giorni nostri, mi è stato possibile realizzare il sogno di scrivere un libro.
Tutti a casa quindi, che dove vuoi andare con st'acqua? La mia fidanzata era via per l'università, niente calcio, sabato sera casalingo, all'epoca niente internet, si andrà a letto presto.
Poi la normale pioggia di novembre inizia a diventare troppa pure per essere pioggia di novembre, i soliti tombini che si intasano, sotto casa mia il solito lago.
Ma quella volta andò diversamente, perché il “solito” lasciò il posto all'eccezionale, all'imprevedibile. Verso sera, quando ormai era buio, saltò la luce e dalla finestra vedevamo la strada scomparire e farsi fiume ed il fiume che pian piano saliva. Il Centa uscì, all'altezza dello stadio, la strada di casa mia scomparve del tutto, mentre noi a casa eravamo più incuriositi che spaventati, perché ancora non era chiaro cosa stava succedendo, e l'unica cosa che ci preoccupava era sapere come avrebbe fatto mio padre a tornare indietro dal lavoro.
Poi ricordo quel rumore, un lungo, interminabile scroscio, di acqua che entra, si impadronisce di cose, oggetti, muri, ricordi. Affacciato alla finestra non capisco da dove provenga, lo intuisco solamente, in ritardo: la sede dei Lupetti, completamente allagata, sotto quasi due metri d'acqua.
Sabato 5 novembre 1994 non capii subito cosa era successo alla mia città, perché era buio, perché tutto sommato una volta che mio padre era rientrato sembrava che la situazione fosse calma e soprattutto sotto controllo.
Lo shock, fortissimo, arrivò domenica, col chiaro.
Affacciarmi e vedere quella interminabile colata di fango mi fece realizzare di colpo cosa era successo; la desolazione delle strade, l'aria spettrale, il vento che rendeva il tutto ancora più funereo, il ponte pericolante: albenga era stata colpita, duramente ed io accusavo fortissima la botta.
Alcuni giorni dopo i gruppi scout di albenga parteciparono alle operazioni di pulizia e sgombero ed io capitai nella zona delle serre: interi magazzini ricoperti di fango, melma, merda.
E quell'odore, acido, pungente, che ti si pianta nel naso e nella testa e non va più via, che restò lì per giorni, mentre negli occhi avevo ben impresse le cose, i ricordi, le vite che quel maledetto sabato di novembre aveva rovinato per sempre.
A 22 anni, stupido ed immaturo, realizzo forse per la prima volta il bene che voglio al posto dove ho passato tutta la mia vita, lo capisco girando per le strade e guardando quelle cataste altissime di cose buttate vicino ai cassonetti, lo capisco nel colore delle mie scarpe ogni volta che esco a piedi, lo sento distintamente nello sbigottimento della gente che ancora deve riprendersi dallo shock. Percepisco la gravità dell'accaduto e lo riesco a codificare negli occhi atterriti della mia fidanzata il weekend successivo, quando torna dall'università e nel breve tratto dalla stazione a casa sua si rende conto della situazione e resta di sasso.
Mi scopro innamorato di albenga, di una albenga ferita e sofferente.
Un amore che non mi ha lasciato nemmeno dopo essermi trasferito, dopo che la mia famiglia ha lasciato la casa dove sono cresciuto.
Quel weekend di 20 anni fa mi ha fatto scoprire il mio amore per la mia città, mi ha fatto sentire parte di una comunità, ma ha messo a nudo anche le mie debolezze, mi ha fatto fare i conti con quella che ritenevo essere una corretta scala di valori e di priorità.
Quando il mese scorso sono andato a dare una mano a genova, ho sentito di nuovo quell'odore e tutte queste sensazioni si sono rifatte vive.
20 anni fa, dentro quel fango, probabilmente sono diventato un po' più uomo.

martedì 4 novembre 2014

il pagellone - ottobre

Johnny Winter - Step back: 8



Cheap Wine - Beggar Town: 8,5



Kris Kristofferson - An evening with Kris Kristofferson: 8



Dana Fuchs - Songs from the road: 8



Mojo Makers - Devils Hands: 7,5



Jackson Browne - Standing in the breach: 7,5



Bob Seger - Ride out: 7




domenica 2 novembre 2014

La città dei mendicanti vista dai Cheap Wine



Beggar Town, il nuovo album dei Cheap Wine è un disco di contrasti, di contraddizioni e di battaglie.
È un album ricco, denso, niente affatto superficiale, che richiede ascolti attenti e che dimostra ampiamente l'amore ed il rispetto con cui la band pesarese si approccia alla musica ed al giudizio del pubblico.
Un album dove si è in dubbio se partire o fuggire, si combatte con la propria coscienza e con la propria morale, si è in precario equilibrio tra disperazione e speranza, tra rabbia e perdono, tra vendetta e ricostruzione.
Un album dove, musicalmente, questa serie di duelli irrisolti vengono simboleggiati dal ruolo della chitarra di Michele Diamantini e del piano di Alessio Raffaelli; quest'ultimo è il protagonista indiscusso di diversi pezzi, con il suo suono honky tonk, le sue nenie quasi da carillion, il suo incedere sempre comunque trascinante, a cui si contrappone la chitarra di Michele, che spesso esprime sentimenti di fuga ed esplosioni di rabbia, sempre mitigati e in contrasto con il suono del pianoforte. Sembra, più di una volta, quasi come se i due bravissimi musicisti vogliano “imporre” all'altro il proprio riff, decidendo in che direzione vada il pezzo e da questa dicotomia nasce buona parte delle atmosfere dell'album.
Un disco cupo, teso, canzoni che sembrano sul punto di deflagrare ma si avvolgono su loro stesse. Disco come detto molto pianistico e di conseguenza con alcuni rimandi al Tom Waits fumoso, quello che canta immerso nel tabacco e nell'alcol, capace con tre accordi di spaccarti il cuore.
Ma se Tom Waits porta il fumo dei locali e il gusto amaro in bocca, a questo disco partecipano anche le tensioni oscure e malate di diversi brani di Steve Wynn e il Bruce Springsteen pessimista e disperato di alcune canzoni presenti in Nebraska e Devils and Dust.
Le prime tre canzoni delineano un paesaggio spettrale, un luogo in rovina; la nebbia che avvolge le strade in FOG ON THE HIGHWAY è quella che nasconde la vera realtà delle cose e del mondo che ci circonda; già dal primo pezzo entrano in scena i contrasti di cui parlavo all'inizio: il bene ed il male, l'onestà e la tentazione, la bontà e la cattiveria, gli angeli e jesse james; in un mondo dove tutto è in dubbio, niente è più vero, anche la giustizia diventa mera opinione, mutabile e volatile. Il primo risultato di questa situazione è che la nebbia si trasforma in fango, fango che, misto a merda, ricopre sogni, speranze e ambizioni; incontriamo in MUDDY HOPES due personaggi chiave, la strega e la fata, una ride, l'altra muore, il male sembra avere la meglio, ma ci ritorneremo sopra.
BEGGAR TOWN, title track e primo singolo, diradata un filo la nebbia, ci racconta dove siamo finiti: è morta la speranza, le illusioni crollano e siamo costretti a rinunciare ai nostri sogni; nulla resta oltre al mendicare, un pasto, un reddito, una dignità, una vita. BEGGAR TOWN è la CITTÀ PIENA DI PERDENTI di cui si parlava circa 40 anni fa in New Jersey, solo che ora non ce ne possiamo andare, né possiamo sperare di vincere. Il Re di questa città è il burattinaio dai mille volti e mille nomi che tutto manovra e tira i fili delle nostre esistenze; un nemico troppo grande da combattere e troppo oscuro da identificare, unica scelta possibile, adorarlo, perchè sulle nostre disgrazie e sulle nostre lacrime è fondato il suo regno.
Arrivati a questo punto, sembra improbabile andare avanti, serve una svolta, che le successive 4 canzoni cercano di delineare. La scialuppa di salvataggio in LIFEBOAT è inevitabile; fermate tutto, io scendo, me ne vado, fuggo dalla nebbia, dal fango, dai mendicanti.
Arriva, a sostenere il protagonista nelle sue scelte un coro, come nel teatro greco, che afferma con forza la bontà delle sue intenzioni.
È il momento, è il TUO momento, ecco cosa dice, con atmosfere da west coast YOUR TIME IS RIGHT NOW: mettiti in cammino, cerca la verità, cercala nel viaggio, cercala dentro te stesso e la troverai, troverai la luce.
KEEP ON PLAYING e CLAIM THE SUN  sono due pezzi che vanno a braccetto, si completano e formano un unico messaggio: il vagabondo che trova nella musica l'unica forza, l'hobo che bene conosciamo noi che sogniamo il ritorno di Woody Guthrie, proprio nella musica ha la sua luce, la sua verità, così come l'uomo onesto e vero trova nella sua coscienza la forza per restare ritto ed integro; la musica, la coscienza, sono queste le armi che abbiamo per riprenderci ciò che ci spetta e trascinare altri con noi, per poter finalmente pretendere quello che è nostro, pretendere un futuro luminoso, pretendere il sole.
Nell'aneddoto di UTRILLO'S WINE si nasconde la minaccia del male, che non vuole darcela vinta; la dipendenza, nemica della creatività che rende cattivi anche chi ha animo buono e buone intenzioni.
Arriviamo quindi a DESTINATION NOWHERE, l'altra faccia del viaggio, visto come fuga, sconfitta, rassegnazione; ci abbiamo provato, sembra dire la canzone, ma non andiamo da nessuna parte; unica speranza, quella, un giorno, di ritornare, di risorgere, anche se ora il sole che pretendevo nel pezzo precedente, sta tramontando su una piazza deserta.
Ritorna quindi forte il dualismo tra bene e male e tra buoni e cattivi, perchè in tutto questo, ancora non è chiaro chi sia davvero buono, cosa sia realmente giusto. BLACK MAN parla di compromessi, di decisioni sbagliate, ma in un certo senso rese obbligate, parla di valori che non ci sono più e di scelte di campo. Se è la mia dignità ad essere in gioco, allora voglio stabilirne il prezzo, voglio che mi renda qualcosa.
Il climax di questo tormento lo si raggiunge in I AM THE SCAR dove non esiste più speranza, né illusione, né voglia di sistemare le cose; tutto ciò ha lasciato il posto alla rabbia sorda, al furore, alla voglia di vendetta; fucili, tombe e cicatrici, sembra che la BEGGAR TOWN alla fine, porti solo a questo e non a caso, per la prima volta la musica, spesso trattenuta, esplode realmente, in un boato rancoroso e cattivo.
Posta alla fine del disco, I AM THE SCAR getta un'ombra assai inquietante sul mondo visto dai CHEAP WINE e sulle possibilità che si possa uscire da questa situazione.
Ma per fortuna, l'ultimo pezzo è una grande, grandissima dichiarazione di speranza; la strega e la fata di cui si parlava in MUDDY HOPES ritornano per dirci che no, non tutto è perduto, perchè la fata, simbolo di speranza ed ottimismo, è viva, vola ancora, vola in alto ed ha delle ali bellissime.
Perchè le ali della nostra fata sono quelle di una persona meravigliosa, che nel breve, brevissimo tempo che è stata con noi ha lasciato un'impronta indelebile, indimenticabile e che ci fa urlare a gran voce che possiamo vincere, perchè è enorme la forza che lei ha lasciato in chi le è stato vicino fino all'ultimo e il ricordo che ha lasciato in chi, come me, le ha parlato solo un paio di volte, ma ricorderà per sempre il suo sorriso. Alla fine è l'amore la chiave di tutto, l'amore che ci da forza e grinta, che ci fa trovare pace e voglia di andare avanti. L'amore è il motore.
LA PAURA DEL BUIO NON PREVARRÀ si canta in THE FAIRY HAS YOUR WINGS, perchè le ali che abbiamo ricevuto ci renderanno capaci di volare sopra tutte queste rovine e ricostruire qualcosa di nuovo, come da un lutto, da una perdita, da una tragedia si può rinascere, ripartire, vivere.

Grazie.