mercoledì 1 agosto 2018

Addio, e grazie per tutto il pesce




L'otto agosto questo blog compie 10 anni

Fa molto strano pensarci, 10 anni fa non c'era Facebook, c'erano ancora i forum, si usavano ancora le mail; la Virgi era ancora nella panza di mammà, mentre a settembre farà l'ultimo anno di elementari; Luvi smaniava per iniziare la scuola materna mentre a settembre farà l'ultimo anno delle medie.

Il mio ego era già ben pasciuto e pensai fosse divertente avere una sorta di mio diario personale ovviamente da condividere con tutti. Lo scriverci sopra mi ha aiutato a raccogliere le idee per i miei libri, per raccontarmi, per scrivere di musica e di quant'altro mi venisse in mente. Ad un certo punto aveva un numero di visitatori giornalieri davvero alto (sui 1500 - 2000); il post più letto è stato visualizzato da più di ventimila persone, più degli abitanti di Albenga, che è una roba che mi fa morir dal ridere al pensiero.

Dopo 10 anni ho deciso che questa avventura sia conclusa, pertanto l'otto agosto lo metterò offline e questo è l'ultimo post che pubblicherò qui.

Ovviamente questo non significa che la mia bulimica logorrea sia guarita, anzi, ma la farò sfogare con altri strumenti.

Mi troverete come al solito su facebook, mentre per la musica e tutto quello che le "gira intorno" (cit.) ci potremo "incontrare" nel mio nuovo blog Radio Cala che troverete online dall'8 agosto qui:




Sarà uno spazio esclusivamente musicale, un punto unico di raccolta per le mille cose a sfondo musicale in cui sono coinvolto o che mi appassionano, come le associazioni di cui faccio parte, i festival, le serate, i programmi alla radio, ma anche i miei scritti su dischi, canzoni e concerti, i miei ascolti. 
Troverete cose che magari avete già letto alle quali via via se ne aggiungeranno delle altre.
Spero di incontrarvi ancora.

Ah, sappiate che se vi state ancora chiedendo "Cala, perchè hai aperto un (altro) blog?" la risposta è sempre "perchè no?"

venerdì 13 luglio 2018

In U2 veritas!



All'interno della rassegna BRG Live! organizzata da BRG Radio e che prevede serate dove noi speakers della radio andiamo in alcuni locali di Finalborgo a proporre puntate "a tema", giovedì 12 luglio insieme all'amico Danilo, dalla Cantina In Vino Veritas ho ideato e condotto uno speciale dedicato agli U2.

Ecco i brani trasmessi:

  1. Where the Streets Have No Name
  2. I Will Follow
  3. Out of Control
  4. The Electric Co.
  5. Gloria
  6. October
  7. New Year's Day
  8. Seconds
  9. 11 O'Clock Tick Tock (Live)
  10. Sunday Bloody Sunday (Live)
  11. A Sort of Homecoming
  12. I Still Haven't Found What I'm Looking for
  13. Exit
  14. Helter Skelter (Live)
  15. Pride (In the Name of Love)
  16. All I Want Is You
  17. The Fly
  18. Acrobat
  19. Sometimes You Can't Make It On Your own
  20. Bad - Live from Dublin 31st December 1989

Potete ascoltare la trasmissione oppure scaricare il podcast




martedì 10 luglio 2018

L'affascinante Notte dei Persuaders



The Persuaders ritornano con una bellissima canzone, Notte, accompagnata da un video suggestivo girato negli incantevoli caruggi di Borgio Verezzi.

Un brano scuro, con una cadenza quasi ipnotica, che avvolge l'ascoltatore come le ombre serali fanno con i ciotoli dei vicoli, prendendone possesso, piano piano ma inesorabilmente.

Un brano dove la notte amplifica i silenzi e di conseguenza esalta ogni minimo rumore, come i passi sul selciato deserto, che rappresentano i battiti di un cuore che pulsa e che al buio, quasi di nascosto, riesce a trovare sfogo al suo incedere, al ritmo che sale e che diventa ossessione ed irrinunciabile voglia di vita, quella vera, senza maschere, fatta di peccato e carne, di passioni e sentimento.

La ricerca di Annie, affascinante protagonista del video, mentre percorre strade illuminate solo da fiochi lampioni è la ricerca di ognuno di noi, la ricerca di qualcuno o qualcosa che come noi non sappia nè voglia fermare la sete che prova da sempre.

Al suo fianco come sempre Simone con il basso e la batteria crea l'atmosfera ideale per la voce affannosa di un'anima inquieta.

Brano ammaliante e dannatamente sincero, che scava nell'animo dei due musicisti, perennemente in ricerca di nuove chiavi per aprire le porte delle nostre emozioni.

Verso fine canzone, Annie è quasi in primo piano e nella sua bellezza straniera e vibrante, mette a nudo sulle braccia le sue vene, proprio quelle dove da sempre scorre insieme al sangue una irrefrenabile spinta al raggiungimento dei sogni, anche quelli più inconfessabili.

Che al termine della Notte, l'alba vi trovi felici, amici miei.

lunedì 9 luglio 2018

Magliette rosse eppur bisogna andar







Avrebbe dovuto essere una cosa semplice, facile, silenziosa.  Sarebbe bastato mettersi quella maglietta, senza proclami, editti o messaggi a reti unificate. Un gesto silenzioso, magari condiviso in rete, forse ripensandoci, nemmeno quello, anche se poi io l’ho messa, la foto su FB.

Un gesto di una pochezza irrilevante, che doveva servire prima di tutto a noi stessi, il fatto di mettersi davanti ad un armadio e dire “ma si, non cambierà nulla, però lo faccio, solo per il fatto che per un secondo, un secondo solo, in modo del tutto artificioso, però per un secondo proverò a mettermi nei panni degli altri, di quelli che la maglietta rossa la fanno indossare ai propri figli per renderli riconoscibili in mare”.

Ed una volta riflettuto su quello che significa quel gesto per chi lo fa sperando serva a salvare vite, beh, si poteva decidere di aderire o meno, ma per Dio, se non altro ci sarebbe venuta meno voglia di puntualizzare, specificare, sottolineare l’ovvio o, come diceva un mio amico anni fa, “segare la segatura”, sprecando fiato, parole ed il tempo necessario a certe discussioni, di sicuro maggiore di quello che sarebbe servito per decidere di prendere o meno quella benedetta maglietta rossa dall’armadio.

Lasciate perdere salvini e meloni, che esista o meno ancor oggi una idea di destra e sinistra, di certo esiste un noi ed un loro. Quei due sono loro, sono altro rispetto a me, la loro ironia beffarda, il loro sarcasmo malato, che rimestano nel torbido, che stuzzicano il punto g del razzismo insito in una fetta tragicamente ampia di noi italiani, sono altro, sono lontani, sono il marciapiede opposto, distante e parallelo.

Se la pensate come loro, questo post non vi serve a nulla, probabilmente nemmeno conoscermi.

Il problema è che quelli che sabato alla fine, a prescindere dal colore della maglietta con cui sono usciti, hanno comunque determinate idee su determinati argomenti, ancora una volta non sono riusciti a capire come l’unità di intenti, in periodi come questo, sia enormemente più importante dei distinguo, dei se e dei ma.

Invece c’erano quelli che dicevano di essere più rossi, quelli che eh io lo faccio tutto l’anno, quelli che ma se lo dice saviano o don ciotti o la boldrini allora no, quelli che devono per forza ribadire di essere “più” degli altri, anche se gli altri sembrano stare dalla loro parte. Opportunismo? Concordo sulla copertina ridicola di rolling stone italia, ma davvero la vogliamo mettere sullo stesso piano di chi per una volta magari voleva prendere una piccola posizione? davvero non pensiamo che sarebbe meglio andare da quelli che "lo fanno solo quando gli viene comodo" e provare a convincerli a farlo più spesso? davvero questo è meno importante del dire tronfi "io la maglietta rossa ce l'ho sempre?". ce l'hai sempre? BRAVO! Ma vienimi a spiegare perchè dovrei avercela sempre o spesso anche io, non guardarmi dall'alto in basso manco parlassimo di musica "hai visto solo 3 concerti in questo tour? pff io 30".

A quelli più o meno apertamente di sinistra serve ancora, come sempre, uno che je dica “io non sò comunista così, io sò comunista cosìììììì!”, un mario brega pronto all’uso, per ribadire ancora che ok, tu la pensi come me ma io sono meglio, perché comunque sia uno come d’alema ce lo siamo meritati e sotto sotto la sua megalomania di dichiararsi “il Migliore” ci piace e gliela invidiamo.

Questa orrenda puzza sotto il naso che la presunta sinistra si trascina dietro da, approssimativamente, i funerali di Berlinguer è esattamente quella che fa parlare i salvini e le meloni di rolex, attici e radical chic, perchè questa è l'idea che arriva, a gente che, non dimentichiamolo, come riferimenti culturali ha fedez e j-ax.

Bastava aprire l’armadio, pensarci 15 secondi e prendere una decisione, non sarebbero cessate le morti in mare, non si sarebbe risolto il problema dell’accoglienza, salvini avrebbe continuato a portare avanti i suoi programmi disumani (perché qui non si parla di fascismo e simili, si parla di umanità), sia che dal nostro armadio fosse spuntata una maglietta rossa o no.

Era un gesto, simbolico, retorico, inutile, ma un piccolo gesto, che ci chiedeva però di pensare solo per 1 secondo “se capitasse a me? Ai miei figli?, se fossi costretto ad azioni apparentemente banali ma dalle quali potrebbero dipendere le loro vite?”. Pensarci sarebbe già stato un successo, più della scelta del look.


Invece si è preferito giocare a chi ha la maglietta più rossa dell’altro, perché alla fine, il d’alema che è in ognuno di noi, è più importante dei morti in mare.

sabato 7 luglio 2018

Il Santo Graal del Rock and Roll (Roxy Theatre, 07/07/78)



Per noi umili servitori del Regno del Rock, noi schiavi inutili, noi soldati semplici delle più sperdute trincee, noi Springsteeniani incalliti ed inguaribili, alcuni nomi, alcune cifre, alcune date, hanno sempre un significato quasi mistico, religioso, le si pronuncia con timore reverenziale, temendo di passare per blasfemi.

Noi, qui, nelle retrovie della periferia dell'Impero, noi che qualcuno era a Zurigo, altri al primo San Siro, molti altri sono arrivati alla spicciolata gli anni seguenti e ancora continuano ad arrivare, abbiamo una concezione tutta nostra del tempo, dello spazio, della storia e della geografia.

Ad esempio, se parlando di Bruce ci capita di leggere 1978 già drizziamo le orecchie, se poi a quell'anno si aggiungono nomi come ROXY THEATRE ecco che la vista ci si appanna, i sensi si fanno più deboli, il cuore rallenta.

Ad un giorno solo dal quarantesimo anniversario di uno dei concerti più famosi nella iconografia springsteeniana, è stato pubblicato come "Official Bootleg", con un audio meraviglioso ed in versione integrale il concerto al Roxy, Hollywood.

Il 1978 fa parte di quei momenti della storia del Rock dove gli eroi erano pochi, ma uno solo sembrava in grado di risultare vincitore.

Bruce nel 1978 era quanto di più vicino all'idea di una Divinità Musicale in carne ed ossa; contro le intemperanze giovanili del punk, che lui assorbiva e sputava fuori con rabbia ancor maggiore, contro il manierismo sterile e masturbatorio del prog, gli assoli di 35\40 minuti, lui rispondeva torturando la sua chitarra prima di esplodere in Prove it all night.

La bandiera del Classic Rock era saldamente nelle sue mani e lui era al momento il migliore che potesse farla sventolare ancora, fiera ed orgogliosa.

Nel 1978 Bruce stava uscendo da un incubo durato 3 anni, nei quali aveva visto la sua musica allontanarsi da lui per colpa di un manager disonesto, aveva visto quella carriera su cui si era giocato tutto sé stesso rischiare di scomparire dietro udienze di tribunale e lungaggini assassine per chi ha un pubblico che aspetta sue nuove pubblicazioni.

3 anni di scrittura compulsiva, amara, furibonda, 3 anni di disillusione, quella di cui poi riempirà il suo capolavoro, anch'esso fresco quarantenne, Darkness on the edge of Town.

3 anni durante i quali però, sul palco, lui ed il suo manipolo di valorosi rinascevano ogni sera, fino a rischiare di morire di nuovo, stavolta in senso meno poetico e più fisico, dopo le interminabili maratone rock con le quali voleva affermare di esserci, di esistere ancora, di essere ancora alla ricerca del modo per andarsene dalla città dei perdenti di cui cantava appunto 3 anni prima.

Abbiamo un po' di rock and roll per voi stasera, dice salito sul palco del Roxy, la sera di 40 anni fa.

E parte con Rave On, Buddy Holly, certo, perchè signori, stasera si fa la storia e per farla bisogna prima conoscerla e riconoscere chi sono i padri fondatori, di questa storia.

Prigionieri? nemmeno uno.

Dalle radici al presente, nemmeno il tempo di un respiro ed ecco Badlands, la novità, la canzone che apre il nuovo disco, la rabbia che viene sputata fuori, mentre i valorosi alle sue spalle non perdono una battuta ed il sax urla forte la sua chiamata alle armi.

Un secondo di silenzio ed eccoli, gli spiriti, quelli che infestano il New Jersey ed i sogni di tanti ragazzi, ecco quella carrellata di umanità ai margini, nascosta, che nella notte americana esce allo scoperto per vivere, finalmente.

Eccola quella Crazy Janey parte costante dei nostri pensieri più carnali, ritroviamoci al fiume stanotte, siamo troppo ubriachi per mentirci ed ognuno di noi ha bisogno di qualcuno che ci dica "Tesoro, lascia che ti guarisca".

Non lasciamo che l'oscurità ci inghiotta e ci nasconda ancora, noi spiriti della notte dobbiamo continuare a correre, per raggiungere quella collina. Darkness è rallentata e rabbiosa, la voce passa attraverso i denti come un ringhio, la belva è ferita ma la catena sta per spezzarsi.

Saliamo, che nessuno ci faccia domande, che nessuno ci guardi troppo a lungo. quelli fortunati, nati sotto una buona stella, fanno altri percorsi, da qui passano solo quelli disposti a combattere per davvero.

Ancora nuovi brani, con la stanza di Candy che sembra irraggiungibile, in fondo ad un corridoio che ci ricorda nuovamente il buio, scostando sconosciuti che vogliono rubarcela, avanziamo, la batteria aumenta come il battito cardiaco, la porta è ad un passo, chiudi gli occhi, hai ancora molto da imparare, prima di raggiungere i mondi nascosti che splendono.

Si tira il fiato, For you parla di amore, in quel modo dylaniano, sghimbescio ed obliquo tipico dei suoi primi lavori, quelli con dentro talmente tanti personaggi, tante storie, tante emozioni che il risultato è un calderone tanto incomprensibile quanto affascinante.

A ricordarci che l'amore, come la vita, ha due facce e non è detto che a noi tocchi in sorte quella migliore, ecco Point Blank, tradimento, delusione, sogni infranti, la sua vita che scorre dentro queste note, come veleno distillato, di cui ancora non esiste antidoto.

Di fronte al tradimento, l'unica vittoria è affermare la propria identità, davanti alla falsità, l'unico strumento a nostra disposizione è la nostra coerenza e la nostra cocciuta testardaggine. Non sono un ragazzo, sono un uomo e come tale devi trattarmi ed è per questo che io mi dirigo senza paura dritto nella tempesta, perchè sarà il mio essere uomo a farmici uscire a testa altissima.

Cosa ci resta, cos'altro può fare un povero ragazzo se non suonare in una rock band? Ci resta una chitarra, tre accordi e la verità, ci resta la voglia di sbatterla fino a farla sanguinare, ci resta la rabbia da sfogare sulle sue corde, ci resta la possibilità di provarci, sempre, di provarci tutta la notte.

Ci resta una strada, lunga come solo quelle americane possono esserle, ci resta una striscia d'asfalto su cui gareggiare, per sottolineare la differenza tra noi e quelli che semplicemente rinunciano a vivere e muoiono, poco a poco, pezzo a pezzo.

Il pianoforte di Roy illumina quell'asfalto, lo rende percorribile e sul finale lo allunga a dismisura, perchè non debba finire mai, come vorremmo non finisse mai lui di muovere le sue dita sui tasti.

La prima parte del concerto si chiude con Thunder Road, il piano di Roy non esce da Racing ma entra direttamente nel cortile di Mary ed ecco, la promessa, l'obbiettivo, la voglia di farcela, che tornano prepotenti ed imbattibili alla ribalta. Possiamo farcela, se corriamo, dobbiamo farcela, con lei sul sedile di fianco ed un sassofonista nero di due metri tra le cui braccia scivolare a fine canzone.

Poi si continua, carne e ideali, sesso e sogni, She's the one che nasce da Bo Diddley e dentro la sua musica finisce, per una scopata memorabile, Adam che ci ricorda una volta di più quali sono i nostri peccati e le nostre fiamme e quanto ci debba costare liberarci da esse.

La tensione universale di It's hard, dove la debolezza dell'uomo è messa a dura prova, dove la voglia di andare avanti subisce mille ostacoli.

Si arriva alla sarabanda finale di Rosalita, ma prima è giusto tornare alla Storia, quella che ci trascina dentro a questo teatro allora come oggi, quella che in un pomeriggio caldissimo di luglio ti fa mandare moglie e figlie al mare per restare 3 ore solo con lei. Elvis, certo, chi altro?

La bussola del rock, da sempre la sua bussola personale, traccia nuovamente la mappa dove si svolge questa storia, quella che da Tupelo arriva ad oggi, passando per il Roxy, il Cavern Club, l'Apollo e Dio solo sa quanti altri posti dentro i quali ancora oggi aleggia lo spirito del Rock.

Bruce che canta Elvis è qualcosa che va ben oltre l'omaggio e la cover, è Amore, è Devozione, è fedeltà ad un verbo ed impegno a tramandarlo. 

Bruce che canta Elvis è come avere due top model nel letto che ti pregano di trombarle, entrambe, subito.

E poi arriva Rosie, arriva e scappa con noi, in un posto dove non ci possano trovare genitori isterici e discografici bugiardi, a pretty little place in southern California, un posto dove le chitarre suonano giorno e notte, il paradiso del rock, dove Elvis dice Messa ogni giorno.

Su Indipendence Day non esiste parola che non abbia già detto o lacrima che non abbia pianto, qui viene presentata senza che sia mai stata pubblicata ufficialmente, lo farà solo due anni dopo, viene suonata leggermente più lenta e così facendo le pugnalate che mi arrivano tra cuore e stomaco sono più profonde e dolorose, perchè vorrei, con tutto me stesso fare in modo che a me non facciano quello che ho visto fare a lui.

Ancora rock, ancora sesso e fuga, sogni, corse, la notte che appartiene agli amanti ed un sole su cui camminare, un giorno, ma fino ad allora lasciamo tutto da parte per un attimo o per tre ore e facciamoci investire dalla musica e facciamoci lavare dalla sua acqua benedetta e peccaminosa, purificatrice e densa come la passione.

Due cover chiudono la serata, perchè se sei consapevole di far parte di una storia, non hai nessun timore a citarla, apertamente, quindi dopo Buddy ed Elvis, ecco la black music, il soul ed infine i Beatles, con la miglior party song mai incisa.

Twist and shout chiude in gloria, ancora non si capisce come abbia fatto il teatro a restare in piedi, la band saluta, io immagino il pubblico stranito, che guarda verso il palco quasi a chiedersi se sia successo davvero, quello che hanno visto e sentito succedere nelle precedenti 3 ore.

La storia del rock si è fermata ad Hollywood, giusto 40 anni fa, il respiro lentamente riprende il suo ritmo, il battito del cuore torna regolare, la tastiera è di nuovo visibile, gli occhi sono asciutti, ma la pelle d'oca è ancora alta, nonostante il caldo afoso.

Da qualche parte lassù o in un atollo sperduto delle Hawaii, un tizio posa le cuffie, si sistema il ciuffo, indossa il suo giubbotto di pelle e soddisfatto dopo quanto ascoltato, sale sulla sua Harley e riprende il suo vagabondaggio.

Qui, nella periferia dell'impero, qui, nella trincea dei superstiti, il rancio oggi sembrava molto buono, quasi come fosse un giorno di festa.








giovedì 5 luglio 2018

Padova ed il diritto alla felicità (nostra e dei Pearl Jam)


(Foto di Graziella Russo)



Per provare a spiegare cosa pensi io dei Pearl Jam oggi, nel 2018, 26 anni dopo averli conosciuti, vi racconto due episodi del concerto di Padova di qualche settimana fa.

Black, cantata come al solito insieme al pubblico, che si conclude con l’ormai classico coretto che pian piano sostituisce i musicisti e allunga la canzone a seconda dello stato d’animo di Eddie.

A Milano nel 2006 la cosa fu talmente spontanea e partecipata che Vedder si commosse e ringraziò dicendo “avete sistemato il mio cuore infranto”.
A Padova, 12 anni dopo, Eddie ha guardato il pubblico, lo ha incitato a cantare e poi è scoppiato in una risata felice.

Ancora più chiaro, per la mia spiegazione è il momento di Alive, a tutt’oggi indiscusso simbolo della loro carriera, con il suo carico di turbe giovanili, dubbi pesantissimi (sei ancora vivo, mi disse, ma me lo merito? E se fosse così chi potrebbe dirlo?) e catarsi.

Per introdurla, cosa già particolare, perché soprattutto ad inizio carriera Eddie parlava pochissimo, Vedder si lancia in un aneddoto relativo alla sfortunata serata di Venezia di qualche anno fa, quella del nubifragio e del concerto annullato, racconta di amici, di cene andate per le lunghe, battelli persi e necessità di trovare un posto per dormire, racconta di personaggi poco raccomandabili e mogli incazzate.

Un paio di minuti dove nonostante la difficoltà della lingua (sopperita in parte dal tentativo sempre apprezzabile di leggere le traduzioni in italiano) in pochi all’Euganeo non scoppiano a ridere, vuoi per i padroni di casa cocainomani, vuoi per quel “Oh Jesus Christ!”  così spontaneo ed empatico.
Il tutto senza capire dove volesse andare a parare.

“E quella volta esclamai sono felice di essere ancora vivo!” dice mentre Stone attacca il loro riff più celebre.

Ma come? Un brano così drammatico, che parla di padri ignoti e di quello già detto sopra, introdotto da una storia da bar?

Il punto, a mio avviso, è questo: Eddie Vedder oggi è una persona felice, felice e serena. Consapevole del suo ruolo, consapevole della situazione del suo paese, niente affatto impaurito nel prendere posizione.
Ma felice.

Di fronte a questo, ci si può allontanare da un gruppo che partendo dai malesseri e dall’introspezione anche molto cupa riusciva ad arrivare ad una catarsi molto positiva e che forse oggi in certi brani, di quelli più recenti, viaggia col pilota automatico (Can’t deny è proprio leggerina).

Oppure, preso atto di questo, si può apprezzare la loro professionalità, la loro grande carica e la loro passione nel riproporre i loro brani più vecchi senza che questi perdano di credibilità, nemmeno dopo introduzioni semiserie. Oppure si può essere contenti per lui, per loro e in qualche modo con loro; loro che hai conosciuto da ragazzo parecchio disorientato e che ti hanno accompagnato, non importa se con album più o meno memorabili (più i primi dei secondi, comunque) ma con quella onestà di fondo, quella capacità di parlarti che non è mai venuta meno, nemmeno nella succitata Can’t deny, leggerina si, ma utile nel ricordare di metterci la faccia, sempre.

A Padova sono arrivato molto, ma molto impaurito per le condizioni della voce di Eddie, il concerto di Londra annullato, quello di Milano a mezzo servizio, forse meno. Preoccupato al punto da rilassarmi solo quando sulla pagina ufficiale del gruppo è comparso il manifesto della serata, a conferma che il concerto si sarebbe tenuto, evento che almeno io non davo affatto per scontato.

A 25 anni dalla prima volta, nemmeno troppo distante da qui, Verona in apertura degli U2, i PJ sono oggi  dei classici del Rock; lo si capisce da come stanno sul palco, da come suonano, dall’età media del pubblico, oltre che dalla loro.

Musicisti incredibili che per 2 ore e 45 minuti mi hanno rinfrescato la memoria sui tanti motivi per cui li ho amati da subito.
Fugati rapidamente i dubbi sulla voce di Eddie, dopo la partenza tranquilla esplodono in un vortice di rock che pesca a piene mani dai loro primi dischi, con Daughter utile a tirare il fiato e a dichiarare ancora la propria posizione politica, prima di una meravigliosa e da me inaspettata Red Mosquito (insieme a God’s dice la sorpresa della serata).

Mind Your Manners mostra il fianco alla produzione antecedente ad essa, ma Down riassume in una sola strofa quello che è il loro insegnamento a me più caro “Non puoi essere neutrale, su un treno in movimento”, frase nemmeno loro, ma adattissima alla loro storia ed ai miei ideali.

Spin the black circle e Porch mettono a dura prova la resistenza del pubblico, in un Euganeo orribile da un punto di vista estetico, ma funzionale e soprattutto parecchio pieno.

Primo bis che inizia riflessivo con il quadretto familiare e comunitario di Small Town e la psicanalisi in note di Inside Job (capolavoro a firma del gigantesco Mike McCready), prosegue con Once e Betterman, oltre alla Black di cui ho già raccontato.

Accoppiata clamorosa Crazy Mary e Rearviewmirror, la prima in una versione dilatata da assoli preziosi di Boom e Mike, che si alternano ed accavallano per una decina di minuti di assoluto godimento.

“Quello che ti fa più paura, potresti trovarlo a metà strada” cantava la brava Victoria Williams in questo splendido ritratto americano, tra i matti del villaggio, i vagabondi ed una bottiglia che in ogni caso si deve condividere.

Lascio che la musica mi avvolga e mi investa, gustandomi ogni singolo istante, come si capisce dalla foto, scattata proprio durante questa canzone.

RVM frantuma ogni resistenza, brano che adoro da sempre, porta con sé una forza che nessuna valvola di sfogo ha mai eguagliato, finalmente le ombre si stanno diradando canta Eddie, frase oggi ancor più vera di allora, per lui, ma anche per me, che con le loro canzoni sono passato attraverso momenti brutti, pessimi e orrendi, ma che ora posso godermela senza sentirmi dentro quella rabbia che spesso tiravo fuori grazie all’ugola di Vedder.

Si riprende con Smile e la già citata Alive, che introduzione a parte è comunque un pezzo che non dovrebbe mai mancare nei loro concerti; sui dubbi sul meritarsi di essere vivo non ci hanno costruito solo loro qualcosa, ma ancora oggi spesso è un quesito che mi torna alla mente, soprattutto da quando lavoro a contatto molto più stretto di prima con il dolore e la morte stessa.

Un brano che mi si è appiccicato addosso da quando la ascoltai nella mia “young man’s room” e che funziona benissimo da personale cartina di tornasole.

Baba O’Riley ed Indifference chiudono la serata, perché sarà pur vero che qui è tutta una “teenage wasteland”, ma queste tre ore mi hanno ricordato l’importanza di urlare fino a riempire le stanze di quella che chiamo casa e che per quanto veleno si possa ingoiare, arriverà il momento in cui ne diventeremo immuni.

Questa è la differenza, la differenza tra uno spettacolo rock ed un loro concerto. Il fatto che alla fine, il motivo per continuare a credere in quello che si fa, nelle proprie idee, sia più forte di ogni pugno ricevuto.

Ed allora come cantava Daltrey, abbiamo diritto ad una Sally da tenere per mano, per raggiungere un posto là, verso sud, prima di essere troppo vecchi.
Fa strano cantare questo brano, in uno stadio dove l’età media è ben oltre quel “hope I die before I get old” degli stessi Who; strano ma intenso, perché alla fine ben più della carta di identità, sono i nostri valori e le nostre emozioni a tenerci se non giovani, sicuramente vivi, valori per i quali debba valere la pena combattere, canzoni per le quali valga la pena commuoversi, dentro le quali vedersi e conoscersi meglio.

Sono un gruppo felice oggi i PJ, suonano rilassati, consapevoli di essere per certi versi dei sopravvissuti, ma non per questo appagati o annoiati. La loro ferocia sugli strumenti mi ha confermato quella che io ritengo la loro dote principale, che va oltre la qualità dei singoli brani, ossia la buonafede.

Cantare Alive a 50 anni suonati non è la stessa cosa che cantarla a 25, ovvio, ma cantarla oggi significa avere ancora chiara la responsabilità che ci si assume salendo su un palco davanti a persone, ragazzi, uomini e donne, che dentro i tuoi pezzi cercano motivi e spunti per dire si, mi merito di essere ancora vivo.



mercoledì 20 giugno 2018

Una montagna troppo alta da scalare (Ciao, Don)



(Foto di Paolo Tavaroli)

La prima cosa che mi viene in mente pensando a Don Sappa è questa strofa di un pezzo di Venditti.

È una frase che ho pensato spesso riferita a mio padre, ma anche a lui, il primo parroco del Sacro Cuore che conobbi, bambino, quando iniziai a frequentare la parrocchia davanti a casa.

Un omone burbero di una bontà infinita, ma alto quasi due metri e con due mani grandi come badili.

Ragazzetto poi, da assiduo frequentatore dei due campi da calcio dell’oratorio, ricordo il terrore che ci assaliva quando lo vedevamo uscire da casa sua, di fianco al campo piccolo, temendo che stesse venendo a prendere qualcuno di noi colpevole di qualche improperio di troppo.

Una montagna, ma di bontà, cultura e testimonianza, anche se lo capii dopo, più adulto, quando non era più la spauracchio dei bestemmiatori, ma un punto di riferimento saldo come una roccia, come una montagna, appunto.

Abbiamo avuto diversi momenti di condivisione, esclusiva, io e lui e le sue parole mi colpivano al cuore ed al cervello, mi davano le coordinate esatte per camminare sulla strada che mi indicava e soprattutto me ne dava motivazione e stimolo.

Senza dimenticare quella caratteristica che me lo ha reso carissimo e meraviglioso, essere uno juventino sfegatato.

Di Don Sappa, oggi che è tornato alla casa del Padre, voglio ricordare anche e soprattutto episodi indimenticabili legati alla nostra comune passione calcistica.

Ad inizio anni 80, mentre in serie A lo scontro al vertice era tra juve e roma, noi ragazzini passavamo le domeniche pomeriggio al campetto a giocare a calcio; eravamo tanti, quindi si giocava a turno e chi stava fuori ascoltava "Tutto il calcio minuto per minuto".

La domenica di roma – juventus di non so bene che anno, però, la partita alla radio era più importante di quella tra di noi, quindi eravamo tutti attorno all'apparecchio.

Ad un certo punto arrivò il Don; scese il silenzio, lasciammo parlare ciotti ed ameri.
“Juve in attacco, palla a platini, cross, caricola, caricola, porta vuota!!!! FUORI!!!”

Il gelo. 

Buona parte di noi si morse la lingua, altri pregarono di trattenere l’imprecazione che sentivano arrivare dalle viscere e salire su fino in gola.

Finchè il Don dopo 3 secondi di totale silenzio e apnea collettiva, esclamò “CARICOLA!!! FIGLIO DI PUTTANA!” Boato che manco ai gol, altro che scudetto, quella era una liberazione, una rivelazione!!  

La sera della finale di champions del 1996 andai a vederla da amici; scesi ad aspettarli e vidi il Don davanti all'ingresso dell’oratorio; andai a salutarlo per due parole di conforto vista la tensione, mi accorsi che era pallido. 
Don, tutto bene? No, per la tensione ho sentito che il cuore mi stava dando dei problemi, così per tranquillizzarmi mi son fatto un whiskyino.

Andò come andò, stranamente, e tutti noi che eravamo a vedere la partita, prima dei caroselli per strada, decidemmo all'unanimità di andare da lui. 

Era di nuovo davanti all'ingresso, con un sorriso felice. Gli saltammo addosso in 4, tutti più o meno della mia stazza; lui ci abbracciò tutti e 4 e ci sollevò, mormorando solo “che bello.. che bello..”.

Il Don si ritirò e per molti anni non lo vidi più, fino a quando nel paese di mia moglie dedicarono una piazza al parroco storico, che arrivò proprio dal sacro cuore di albenga, dopo essere stato il suo vice. Malfermo sulle gambe, ma sempre la montagna di bontà e Fede che ricordavo, felice di rincontrare i suoi parrocchiani, mi riconobbe immediatamente e mi abbracciò con la stessa forza di quella sera di festeggiamenti.

Don Sappa, una bussola per noi che cercavamo di dare un senso alla nostra vita ed a quelle parole che ascoltavamo spesso senza coglierne a pieno il significato.

L’ho rivisto per l’ultima volta quando al Sacro Cuore si festeggiarono i 100 anni del mio gruppo scout.

Celebrò la Messa quasi sempre seduto e fece l’omelia. Anzi, non fu un’omelia, fu il suo saluto, finale. 

Un uomo sereno ed in pace, che ringraziava Dio per quello che aveva avuto e si approntava a percorrere il suo ultimo tratto di strada; una serenità, una gioia che mi lasciarono sbigottito. Un uomo anziano e del tutto consapevole che il suo tempo stava finendo, ma che più che di questo, si preoccupava di ringraziare il Signore per il tempo che aveva vissuto.

Ho parlato di lui nell'oratorio vicino a casa nostra, mentre molti bambini riempivano il campetto di felicità e voglia di giocare, proprio come facevo io le domeniche di 35 anni fa mentre il Don guardava soddisfatto, lui che rese quel posto la migliore interpretazione del “lasciate che i bambini vengano a me” così cara a Nostro Signore. Gli sarebbe piaciuto questo posto.

Ora che ha ritrovato il suo caro amico Giacumìn, chissà che partite che organizzeranno per i bambini in paradiso.

Ciao Don, forza juve


mercoledì 2 maggio 2018

Ciao, buona domenica, ci vediamo sabato prossimo


vent'anni fa oggi, mentre ero a portare i miei ragazzi degli scout in route, ricevemmo la telefonata che non avremmo mai voluto ricevere, ma che sapevamo stesse per arrivare.

Vent'anni fa se ne andò il mio amico Pippo.
Pippo, non "il padre del capitano", non solo.

Perchè se nella nostra compagnia siamo in tanti, troppi, ad aver perso il papà per motivi fottutamente simili tra loro, Pippo era per me qualcosa di più.

Pippo magari non era un amico in senso stretto, ma l'affetto ed il bene che gli volevo andava ben oltre l'essere papà di un mio amico.
Pippo, capitano dei gialli ed organizzatore ufficiale della partita del sabato e delle settimane bianche.
Pippo, juventino, scherzoso, casinista, una persona di una bontà e di una simpatia rare, sempre pronto a dare una mano a noi ragazzi scout.

Pippo che quando a 17 anni andammo tutti a vedere un concerto a Genova doveva venirci a prendere e dopo 1 ora ancora non si vedeva, così il capitano chiamò casa e gli rispose lui, oh belin! Si era rotta la macchina e stava arrivando sua moglie.

Pippo che riuscì nell'impresa di convincere mio papà a farmi andare allo stadio a vedere la juventus, la mia prima partita della juventus!!! Aprile 1990, stadio comunale, curva maratona, juve - colonia 3-2.

Pippo che viene a prendere suo figlio, il Conte e me all'aeroporto dopo la vacanza a Londra e riceve in regalo una cornamusa; Pippo che prova a suonarla con sua figlia di pochi mesi che dorme e quando la cornamusa inizia a suonare impazzita non riesce a fermarla tra le nostre risate e la disperazione di sua moglie. 

Pippo, soprattutto calciatore infaticabile per i gialli, i nostri rivali, nostri di noi dei rossi eh, quelli del mio libro Scusa, Ameri che proprio a lui è dedicato e proprio con il titolo di questo post inizia.

Sono passati 20 anni Pippo, da quando te ne sei andato, da quando tuo figlio ci chiese di non interrompere la nostra route, da quella corsa il giorno dopo per venirti a salutare, da quella notte passata a vegliare di fianco a te ed al tuo cane che stava lì fermo, distrutto dal dolore come tutta la tua famiglia.
Sono passati 20 anni da quel funerale così partecipato, da quell'omelia scritta da tuo figlio, da quelle lacrime che non volevano smettere di scendere.

Siamo cresciuti Pippo, siamo uomini, padri, madri, zii, abbiamo pianto altre perdite e festeggiato matrimoni e nascite, chissà quanto saresti stato contento nelle giornate di festa, insieme ai tuoi amici del MASCI,

Ma oggi, come 20 anni fa, ricordo con precisione il momento in cui mi vennero a chiamare perchè mia madre mi cercava al telefono e sapevo che c'era solo un motivo perchè mi chiamasse durante una attività scout.

Ricordo tutte le tue prese in giro negli spogliatoi, tutte le volte che facevo una bella parata e per te era sempre "che culo!", tranne quella volta che giocammo assieme, forse l'unica e allora mi facesti un sacco di complimenti.

La bella persona che eri è dentro i tuoi figli, che ti assomigliano non solo nei lineamenti.

Chissà se hai visto mio papà lassù, magari vi siete fatti anche un giro a cavallo, come ai tempi della Camargue.
Magari siete tutti assieme, voi che ci mancate così tanto, Antonio, Ermanno, Walter.
Tutti a guardare sti figli maschi casinari e incerti che qualcosa di buono stanno facendo.

Ed allora stappo una bottiglia di vino, come fosse una del tuo, Pippo e brindo a te ed ai 20 anni che hai passato ad accompagnare da là i tuoi cari.

E come ci dicevi sempre dopo la partita, uscendo dallo spogliatoio, ti saluto così:
Ciao, buona domenica, ci vediamo sabato prossimo.

mercoledì 18 aprile 2018

Abbassa quello Stereo! (In vendita da oggi!)



Esce oggi per GLI ELEFANTI EDIZIONI il mio terzo libro, dal titolo ABBASSA QUELLO STEREO!

Il libro, in formato cartaceo e digitale, è in vendita su Amazon cliccando qui:



Devo essermi perso qualcosa da quando mi sentivo dire abbassa quello stereo! dai miei genitori a quando ho iniziato a sentirmi dire abbassa quello stereo! dalle mie figlie. Il motivo, probabilmente, leggendo bene, si trova nelle righe di questo libro. 

Alcuni racconti, legati tra loro dalla mia grande passione (grande e sicuramente insana) per la musica, per le storie raccontate nelle canzoni. Un libro che, si badi bene, più che di musica, parla di me stesso e del mio rapporto con essa, delle volte che ho sentito la mia vita dentro le canzoni e delle volte in cui le canzoni mi sono entrate dentro, cambiandomi la vita.

Grazie a chi lo leggerà, grazie a chi condividerà questo post e farà passare la voce.