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sabato 30 luglio 2022

Sogni di vita e mondi distanti (20 anni di The Rising)

 




 

 WE NEED YOU NOW! Abbiamo bisogno di te, ORA. 

Queste parole urlate da un anonimo finestrino di una macchina americana hanno, a suo dire, dato il via al processo di composizione che ha portato Bruce Springsteen alla pubblicazione, il 30 luglio 2002, di The Rising. 

Parole urlate da un fan pochi giorni dopo l'11 settembre 2001, il giorno in cui l’America si è scoperta fragile, debole e spaventata. 

Sul momento non ci pensai, ma anche io, lontano e al sicuro, avevo bisogno delle sue parole, delle sue canzoni, delle sue riflessioni. 

Io, che quel giorno impiegai parecchio a capire cosa stava succedendo, al punto che quando il mio collega me lo venne a dire mentre stavo facendo diversi colloqui con i miei utenti, gli chiesi: ma ci sono dei morti? 

Ricordo che la portata dell'evento mi fu chiara guardando mia nonna, ottantotto anni e due guerre mondiali vissute, con gli occhi spalancati dal terrore davanti a quelle immagini che tutti ricordiamo.

Molti sono gli artisti che da quel giorno hanno tratto ispirazione per i loro lavori, ma uno solo si è preoccupato non tanto di giudicare, di condannare, di polemizzare, bensì di raccontare, raccontare la gente, le sue paure, i suoi pensieri, anche quelli meno confessabili. 

The Rising, a mio avviso, NON è un album sull'11 settembre, ma un album sul POST 11 settembre. 

È un album sull'America, le sue contraddizioni, la sua forza, la sua debolezza, ma soprattutto la sua GENTE; è un disco pieno di gente: pompieri, vedove, amici di vedove e vedovi, uomini oscuri, uomini e donne anonime, amanti, figli. 

È un disco, tra l'altro, che contiene diverse canzoni scritte PRIMA dell'11 settembre, ma che si adattano terribilmente bene all'atmosfera del disco. 

L’America, la gente americana che aveva bisogno IN QUEL MOMENTO di Bruce e della sua musica, fanno da filo conduttore, seduti su un fantomatico lettino a confidarsi, a sfogarsi ad aprire il loro cuore a Bruce, che come forse nessun altro trasforma le emozioni popolari in poesia ed arte, rendendole universali. 

Si chiama empatia e nessuno nel mondo della musica l'ha resa arte come lui

Solitudine come sentimento condiviso e comune in quei giorni negli states. 

Questo lungo, lunghissimo 12 settembre è quindi un giorno solitario.

Come accadrà spesso nel corso dell'album, pur non schierandosi mai su posizioni “politiche” o di critica\analisi politica degli attentati, Bruce lascia che i protagonisti delle sue canzoni abbiano reazioni impulsive, emotive, non filtrate dalla razionalità o dalla riflessione, ma se mai stimolati dalla rabbia e dal dolore:

L'inferno sta mescolando il buio, il sole sta sorgendo
Questa tempesta infurierà da un momento all'altro
la casa è in fiamme la vipera è nel prato
Una piccola vendetta e anche questo passerà 

La rabbia, lo sgomento, la tv accesa e ovunque le torri in fiamme, ma anche incredulità, dubbi, difficoltà ad accettare (perché ci odiano così tanto? Si chiedeva la gente americana in quei giorni). 

Seme di tradimento, frutto amaro, la ferita è aperta e il sangue sgorga dolorosamente, ma, e anche questo è una caratteristica comune di tutto il disco, per ogni pensiero c'è una riflessione opposta o comunque lontana, quindi se viene spontaneo aspettarsi “una piccola vendetta”, pochi istanti dopo ci viene ricordato che sia “Meglio fare domande prima che tu spari”

Alti e bassi, rabbia e comprensione, riflessioni e autocritica, tante sono le carte sul tavolo, un turbinio di emozioni anche contrapposte.

Buon ascolto




Il sacrificio viene riconosciuto ed innalzato giustamente ad eroismo. Ma chi era a casa sapendo che un suo caro entrava là dentro, chiede la forza per capire, la speranza per continuare, chiede ancora un po' di quell'amore troncato.

Il cielo stava cadendo ed era striato di sangue 
Ho sentito che mi chiamavi, ma sei scomparso nella polvere 
Su per le scale, dentro il fuoco Su per le scale, dentro il fuoco 
Ho bisogno del tuo bacio, ma l'amore e il dovere ti hanno chiamato in qualche posto più alto 
Da qualche parte su per le scale, dentro il fuoco 

Il protagonista di un gesto così definitivo lascia a chi lo piange fede, fiducia, forza, speranza e amore, anche in un momento dove è difficile, per chi ne aspettava il ritorno, per chi ne desidera il bacio, capire il perché di tutto questo. Il buio non avvolge solo il protagonista, ma anche la vita di chi lo aspettava a casa

Era buio, troppo buio per vedere, mi hai tenuto nella luce che davi 
Hai teso le tue mani verso di me 
E sei entrato nell'oscurità della tua tomba fumante 



Ho trovato la foto del corpo che cadeva. 
Era papà? Forse. Chiunque fosse, era qualcuno.
Ho strappato le pagine del libro, le ho rimesse in ordine al contrario in modo che l'ultima fosse la prima e la prima fosse l'ultima.

Le ho sfogliate velocemente, e sembrava che l'uomo stesse alzandosi in cielo.
E se avessi avuto altre fotografie sarebbe volato dentro una finestra, e dentro la torre, e il fumo sarebbe stato aspirato nel buco da cui l'aereo stava per uscire.

Papà avrebbe lasciato i suoi messaggi a rovescio finché la segreteria sarebbe stata vuota, e l'aereo sarebbe volato all'indietro, fino a Boston.

Papà avrebbe preso l'ascensore per scendere in strada e schiacciato il bottone per l'ultimo piano. Avrebbe camminato all'indietro fino alla Metro, e la Metro sarebbe andata indietro nel tunnel fino alla nostra fermata.

Papà avrebbe superato il tornello all'indietro, e poi fatto sfilare al contrario la sua tessera della metropolitana, e sarebbe tornato a casa camminando all'indietro mentre leggeva il New York Times da destra a sinistra.

Avrebbe sputato il caffè nella tazza, si sarebbe sporcato i denti e si sarebbe messo i peli in faccia con il rasoio. Sarebbe tornato a letto, la sveglia avrebbe suonato al contrario e lui avrebbe fatto i sogni al contrario.

Poi si sarebbe alzato, alla fine della sera prima del giorno più brutto. Sarebbe indietreggiato in camera mia fischiettando al contrario I am the Walrus. 

Sarebbe stato nel letto con me. Avremmo guardato le stelle sul soffitto che avrebbero allontanato la loro luce dai nostri occhi. 

Io avrei detto "Niente" alla rovescia. 
Lui avrebbe detto "Sì, pulce?" alla rovescia. Io avrei detto "papà" alla rovescia, che non è così diverso da "papà" detto normalmente. 

Mi avrebbe raccontato la storia del sesto distretto, dalla voce nel barattolo fino all'inizio, da "Ti amo" a "Una volta, ma tanto tempo fa". 

E saremmo stati salvi.

(Jonathan Safran Foer: Molto forte, incredibilmente vicino)


 

Chi è sopravvissuto a cose del genere si chiede spesso, spessissimo perché? perché io si e gli altri no? 

Non ricordo come mi sentivo 
Non avrei mai pensato di sopravvivere 
Per leggere di me sul giornale della mia città 
Come la mia giovane e coraggiosa vita fosse cambiata per sempre 
in una nebbiosa nuvola di vapor roseo 

Vi mostrerò qualcosa che sia alla portata di tutti, perché quello che è successo non posso condividerlo. 

Cara dammi il tuo bacio
Vieni e prendi la mia mano
Io sono l'uomo da niente 

Mentre in Into the fire si reclama il bacio di chi non c'è più, chi sopravvive chiede di poterlo dare ancora, per dimostrare soprattutto a se stesso di essere vivo e magari trovare una risposta diversa alla domanda “chi sono io per essere ancora qui?” soprattutto ora che le cose sembrano tornate nella loro normalità, che la gente si sforza di tornare alla normalità e il blu del cielo non è più coperto dal fumo

Cara, con questo bacio dimmi che capisci, Io sono, l'uomo da niente 

Oppure, come sostengono alcuni, l'uomo da niente semplicemente non riesce a sostenere il peso di tutto questo, pearl and silver indica una pistola con il manico di madreperla (o una lama), il protagonista pensa al suicidio perché non è solo la condivisione, ma la stessa sopravvivenza ad essergli impossibile e come nella scena de il Cacciatore, il coraggio che riesce a sfoggiare è quello di chi gioca alla roulette russa con la propria vita

Puoi chiamarmi Joe Offrirmi da bere e stringermi la mano
Tu vuoi coraggio Ti mostrerò il coraggio che puoi capire
perla e argento sul mio comodino
Sono solo io Signore, prego di esserne capace 



Sbalzi di umore, sindrome maniaco-depressiva. Capita a tutti, figurarsi a chi ha vissuto tali tragedie. Un giorno aspetti il sole, l'altro pensi che non ci sarà nessun lieto fine, anzi nessuna favola. 

Ma la canzone invita a credere, in sè stessi e nell'altro, nel nostro prossimo, nei nostri cari. Anche se non ci sono più, se mancano i baci, i contatti, le labbra e soprattutto, comprensibile sconforto, la fede. 

Tutto quello che in Into the fire veniva lasciato da chi era scomparso, qui è di nuovo appiglio, ultima ancora di salvezza, unico indizio che forse un miracolo possa avvenire, ma il dubbio che sia solo una favola come la bella addormentata e che non ci sia spazio per un “e vissero felici e contenti” si insinua perfido ed ambiguo

E' una favola così tragica
Non c'è alcun principe che rompa l'incantesimo
Io non credo nella magia
Ma per te ci crederò, per te ci crederò
Se sono uno stupido, sarò uno stupido
Per te dolcezza 



Ecco la prova che ogni giorno ci ricorda cosa è successo. Il buco. Non solo Ground Zero, con le sue macerie, ma un buco magari meno concreto ma altrettanto doloroso, che ci fa incazzare al punto da voler vendetta, che resta lì sospeso, a farci combattere tra il bene ed il male. Un cielo anche intimo, come quello che ognuno di noi ha dentro e dal quale eventi drammatici fanno scomparire pezzi anche grandi.

Mi sono svegliato questa mattina
Riuscivo a malapena respirare
Solo un cielo vuoto
Nel letto dove eri solita stare
Voglio un bacio dalle tue labbra
Voglio un occhio per occhio

ritorna forte, impulsivo, il desiderio di vendetta, con il riferimento biblico all'occhio per occhio, dente per dente (libro del Levitico cap. 24) che però va affiancato alla strofa conclusiva 

Sulle pianure del Giordano
Ho tagliato il mio nodo dal legno

Il riferimento al fiume Giordano, dove venne battezzato Gesù rappresenta la speranza del passaggio dal vecchio al nuovo testamento, alla buona novella, per dirla con De Andrè, che Gesù portò nel mondo.




Down in the hole, traccia di High Hopes inizialmente prevista per The Rising riporta la mente ed il cuore degli ascoltatori ai tanti drammi collegati all'11 settembre. 

Le tante, troppe famiglie che non hanno nemmeno avuto un corpo su cui piangere e grazie al quale provare ad elaborare il lutto.

The Rising fu un album, tra gli altri pregi, molto intelligente e delicato, che andò a parlare delle persone, non di massimi sistemi, di politica, di guerre, ma di persone, il pompiere, il sopravvissuto, la vedova, il terrorista; in questo senso, Down in the Hole rientra perfettamente nell'atmosfera di quell'album, da cui è stata esclusa forse perchè sembra una via di mezzo tra Into the fire e You're missing. 

La normalità della vita  spezzata da un dramma più grande di noi, un dramma che rende tutto diverso, anche le cose quotidiane.

Il sole arriva ogni mattina ma non è per niente amico, mi vesto e ci torno di nuovo. 
La pioggia continua a cadere rovesciando ossa e sporcizia, 
ho sepolto il mio cuore qui in questo male, 
il fuoco continua a bruciare ma tu aspetti nel freddo. 
Giù nel buco

Il buco, il cratere, il simbolo di una ferita così difficile da rimarginare, dentro al quale giacciono ossa e sporcizia, resti umani e brandelli di quello che fino a ieri era, tra le altre cose, un posto di lavoro per migliaia di persone. Un buco vero, fisico, che il protagonista vede come l'ostacolo per raggiungere chi non c'è più.

L’autunno scuro e sanguinante trafigge il mio cuore, 
il ricordo del tuo bacio mi fa lacrimare. 
Il cielo sopra si sta trasformando, il mondo sotto è diventato grigio, 
ho pensato che avrei potuto girarmi e andare via, ma il fuoco continua a bruciare, 
e io sto lavorando nel freddo, giù nel buco.

L'autunno che stava arrivando nel settembre 2001 magari non era così freddo come poi, intimamente, è diventato dopo; impossibile dimenticare, impossibile voltarsi e fingere che nulla sia accaduto, impossibile un ritorno alla normalità: quel buco è lì a ricordarci chi manca, a ricordarci cosa è successo, a spingerci a volerlo sfidare, per trovarci dentro chissà che consolazione.

C’è il brusio nella radio mentre passa i titoli e il vento nelle linee telefoniche, 
il sole sulle spalle, il profilo di una città vuota, 
il giorno lacera uno scuro e sanguinante cuore trafitto. 
Non ho null’altro che il cuore e il cielo e il sole, 
le cose che hai lasciato dietro, mi sveglio e trovo che la mia città è diventata nera. 
I giorni continuano a susseguirsi e la tua voce continua a chiamare. 
Scaverò finché non ti avrò trovata. 
I fuochi continuano a bruciare e io sono qui con te nel freddo, giù nel buco.

Il dramma non è più episodio, ma diventa esistenza, la normalità è il dolore, il fuoco che mi brucia dentro è veleno, ma anche ossigeno per respirare; l'unica cosa che sembra avere senso è una cosa palesemente insensata, il tuo ritorno, da quel buco dove sei morto probabilmente sepolto vivo o magari sciolto, liquefatto, bruciato anche tu, dallo stesso fuoco che lentamente sta uccidendomi adesso. 

Solo questo mi dà la possibilità di sentirti vivo, solo questo mi fa sentire vivo, sapermi con te, nel freddo, dentro al buco.

La bellezza del testo è unita agli effetti della voce che pian piano si schiarisce, quasi come se il protagonista lentamente tornasse all'aperto dopo essersi immerso nella fredda oscurità del "buco".

Non a caso, a mio avviso, una canzone del genere, con un testo del genere, basata sul dolore di una famiglia, vede per la prima volta ai cori l'intera famiglia Springsteen, oltre a Patti cantano infatti anche i loro tre figli, quasi a sottolineare come certe tragedie rafforzino il legame di chi resta e come sia la famiglia lo strumento principale per farsi forza.



Qui si inizia a ragionare sul dopo, sul “cosa possiamo fare ora?”. Sull'inevitabile avvicinamento di diversi dolori, spesso contrapposti. Qui sta la chiave del vero pacifismo, non di quello di facciata e da utilizzare a piacimento, no. Quello vero, che parte dal cuore e dal cervello, che prende coscienza delle distanze ma ritiene impossibile non provare ad annullarle. O la vita ci unisce o la morte continuerà a dividerci.

A volte la verità non è abbastanza
O è troppo in momenti come questo
Gettiamo via la verità, la troveremo in
questo bacio
Nella tua pelle sulla mia pelle,
nel battito dei nostri cuori
Che la vita ci dia un'altra possibilità,
prima che la morte ci separi 




A chi è rimasto disgustato da questa canzone leggerina dico: vai a vedere dove è collocata, tra Worlds Apart e Further On. 

Tra il tentativo di far riflettere gli americani sull'integrazione in QUEL PRECISO periodo storico e la storia di un uomo che si allontana dicendo che "noi risorgeremo, lo so", ma indossa stivali da cimitero e non sai se sia vivo o morto. 

Due pezzi da 90, due colossi, ai quali serve tempo per essere metabolizzati. 

Let's be friends è la pausa caffè, la boccata d'aria, la risata quasi isterica che ci prende per una battuta stupidissima, quando abbiamo appena finito di piangere; è splendidamente funzionale lì, in quel preciso momento.



La notte è buia ma noi risorgeremo in una mattinata di sole. 

Testo da un lato carico di tensione in avanti, dall'altro ambiguo con diversi riferimenti alla morte ed appunto al buio.

Sono stato nel deserto passando il mio tempo
cercando nella polvere in cerca di un segno
se c'è una luce più avanti beh, amico, non lo so
ma ho questa febbre che mi brucia nell'anima
quindi prendiamo i tempi migliori cosi come vengono
e ti incontrerò più avanti sulla strada

Canzone precedente al 2001, che parla di fare i conti con la propria mortalità, con le difficoltà anche durissime che si incontrano sulla strada, sapendo però che la strada va sempre e solo in avanti. Ennesimo riferimento biblico (il deserto come luogo fisico e mentale di riflessione e fatica) per un brano che non è ottimista ma che all'ottimismo tende con disperata fiducia

«Ce la caveremo, vero, papà?
Sí. Ce la caveremo.
E non ci succederà niente di male.
Esatto.
Perché noi portiamo il fuoco.
Sí. Perché noi portiamo il fuoco».

(La strada - Cormac McCarthy)



L'uomo e la donna, la morte ed il sesso, il lutto e la passione. 

Tutto rappresentato da una miccia che prepara ad un'esplosione, senza che si capisca se sarà un bene od un male. 

Io e te, qui ed ora, nonostante tutto. 
Ci siamo ancora, l'uno per l'altra, il funerale rappresentato dalla lunga fila di macchine nere, la cenere, la luna insanguinata non devono più condizionarci, non ora, spogliamoci e lasciamo che la miccia si consumi.



Si prende coscienza del lutto, lo si elabora a fatica, specialmente i moltissimi che non hanno avuto un cadavere su cui piangere e si va avanti, tenendo fede alle tradizioni.

A casa di Mary (nome più che presente nella discografia springsteeniana, nome comune adatto ad ogni donna, in modo che ogni donna ci si possa identificare) c'è la Veglia funebre, che in America è un rinfresco, dove si mangia insieme e si cerca di guardare avanti; la gente mi strappa un sorriso, balliamo amore, anche se non ci sei più, la folla che urla è la vita, che mi chiama, che vuole che torni a lei, sempre più forte, piangiamo, piangiamo pioggia, piangiamo tutta la pioggia, alza il volume, io sono viva.




Ho sognato mio padre, era il 1982
Paolo Rossi 3, Brasile 2
mi sollevava, urlando di gioia

Ho sognato mio padre, eravamo in macchina
guidavo io e litigavamo
come sempre, quando guidavo io

Ho sognato mio padre, partiti alle 4 da casa
per un esame che non avevo studiato
dormiva nel parcheggio, mentre io fallivo ancora

Ho sognato mio padre, il giorno del mio matrimonio
sorriso felice e giorno di festa
soddisfatto del mio vestito, comprato insieme a lui

Ho sognato mio padre, il giorno del suo funerale
respiro a fatica, groppo alla gola
io, mia sorella e la sua preghiera preferita

Ho sognato mio padre, fare il nonno con le mie figlie
guardarmi mentre mi fanno arrabbiare
e ridendo dirmi “te l'avevo detto che era un casino”

Sogno spesso mio padre
ci parliamo poco, come sempre
ma non ha mai fatto il nonno
e questo è il sogno che mi fa più male

(Alberto Calandriello)



Per Padre Antonio Spadaro, “Già vari teologi sia cattolici sia protestanti hanno notato come l’opera di Springsteen abbia una qualità ‘redentiva’: essa gioca i suoi simboli e i suoi temi principali (strada, macchina, oscurità, amore …) in una dialettica di perdizione e speranza, adoperando di frequente immagini e termini della tradizione biblica”. “The Boss”, ricorda Spadaro, “viene da una famiglia cattolica di radici italo-irlandesi, tuttavia il suo rapporto con la religione non è mai stato idilliaco. Egli ha fatto risalire il suo rifiuto della fede a un’esperienza negativa avuta da bambino”. 

Ma, nota il critico, la sua ispirazione è “ricca di figure, termini e simboli di valore religioso”. Per il suo ultimo album ispirato agli eventi drammatici dell’11 settembre 2001, Springsteen ha scelto un titolo di per sé già evocativo, “The Rising”, “La Resurrezione”. Nel brano che dà il titolo alla raccolta, che vede come protagonista un pompiere che sta salendo per le scale di una delle torri gemelle, “il cammino dell’uomo sembra avvenire come sulla spinta di una vocazione e i pesi che ha sulle spalle diventano una vera e propria croce”, osserva Spadaro. “The Rising”, conclude  “non è l’espressione di un semplice riscatto, un’ascesa, un ‘sollevarsi’, né unicamente un termine religioso. Si tratta di qualcosa di più complesso: qui, a nostro avviso, è la pratica dell’immaginario religioso a offrire linguaggio e simboli per dire l’esperienza universale del dolore della morte e dell’attesa di una risurrezione”.

Sepolta a fine disco perché forse per sollevarsi o risorgere prima bisogna passare da tutto quello che abbiamo ascoltato e di cui abbiamo parlato fino ad ora. 

Adesso non è più solo la gente che parla, ma nel coro è Bruce che da la prima risposta al fan: avete bisogno di me? Datemi le vostre mani! UNITED WE STAND! 

Si è sempre sballottati tra il cielo che porta oscurità e morte ed il sogno di una vita che va avanti, comunque. 

Facciamolo per il protagonista delle strofe, che vede la sua Mary a casa, che porta con se il peso dell'armatura e la croce di chi va al sacrificio, facciamolo per loro.



Bruce qui racconta due storie, due protagonisti: il kamikaze nel mercato, che cerca un volto amato nella folla a cui sta per portare morte e la vedova della Virginia che giorno dopo giorno vive per sognare l'amore scomparso.

Entrambi anelano a un paradiso forse più mentale che religioso, specialmente la vedova, che lo aspetta per ricongiungersi a chi ha perduto.
Entrambi sembrano svegliarsi all'improvviso, chissà se in tempo per non farsi esplodere.

Ora possiamo anche parlare dell'altro, di chi è, cosa prova, cosa gli o le passa per la testa nella piazza affollata del mercato, mentre sta per raggiungere il paradiso. Canzone capolavoro perché fa in modo che l'ascoltatore entri in un punto di vista così difficile da capire senza minimamente parteggiare o schierarsi. Bruce ce lo fa fare perché vuole che tutto sia sul tavolo in questa partita, anche chi sceglie di dare e darsi la morte. Solo conoscendo possiamo capire e cambiare.

Secondo Alessandro Portelli nell'album l'enfasi è sul dolore della perdita, sul confronto con la morte e la tragedia. Non sventola la bandiera, non parla di eroismo.  

Springsteen è l'unico a essersi fatto delle domande  

Ha fatto qualcosa di analogo anche il country-rocker Steve Earle, pagandola molto cara. 

Earle ha scritto John Walker's blues, dedicata all'americano che si era arruolato con i talebani, interrogandosi sui motivi che avevano portato questo ventenne a unirsi a dei fondamentalisti islamici contro il suo Paese. 

La canzone è stata boicottata da tutte le radio e lui ha ricevuto forti critiche e anche minacce.





Bruce chiude con un gospel, una preghiera, un'invocazione. 

Non è la congregazione sparita, non sono le finestre sbarrate, non è il cerchio rosso sangue il punto focale della canzone. 

Il punto focale è che la città in rovine, dice Bruce, è MIA, io ci sono dentro, io vedo le puttane e gli sbandati, vedo le rovine, vedo le anime perse. 

Ma tutto questo lo sento MIO e non lo lascio.

Avanti alziamoci, tutti quanti, COME ON RISE UP!



My City of Ruins: Bruce Springsteen e l’utopia fra le rovine
di Enrico Botta 
(https://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/1305)

L’obiettivo di questo saggio è considerare come nel brano di Bruce Springsteen My City of Ruins la riflessione sulla New York post-11/09 si declini attraverso l’interazione tra il tema delle rovine e quello dell’utopia. In particolare, cerca di mettere in luce come, nel descrivere le conseguenze dell’11 settembre, il brano non descriva più le rovine simboliche di un passato straniero cui ispirarsi – come nei numerosi testi statunitensi ottocenteschi e novecenteschi sul Grand Tour – ma i segni autoctoni e irremovibili di un sogno americano ormai collassato che, secondo l’artista, può rivivere solo in una Promised Land utopica e spirituale.

Se l’obiettivo principale di The Rising è raccontare ed esprimere le emozioni dei  sopravvissuti agli attacchi terroristici, con la sua apprezzabile caratura musicale e lirica, e con il suo raffinato coinvolgimento emotivo e religioso, My City of Ruins chiude significativamente l’album e lo riassume. Divisi in due parti ben distinte, sia da un punto di vista lirico sia musicale, i cinque minuti di cui si compone il brano – spiega Antonella D’Amore (2002: 16) – sono costruiti secondo un modello blues-gospel che bilancia emozioni e sentimenti contrastanti: paura, dolore e solitudine delle vittime nel 
rock-blues della prima sezione; fede, volontà di non arrendersi e speranza di risollevarsi nel gospel della seconda.7 In particolare, la prima parte della canzone consta di tre strofe – ognuna delle quali si conclude con la ripresa del titolo – e di un ritornello costituito dalle parole: “Come on, rise up”. 

La seconda parte è una preghiera – “questa è una preghiera per le nostre sorelle e per i nostri fratelli caduti”, spiega Springsteen prima della sua performance per il Telethon –; un canto gospel in cui la voce ufficiante ripete per ben diciotto volte l’espressione “With these hands” e la proposizione “I pray Lord”, prima di terminare con la ripresa del ritornello “Come on, rise up”

Dopo una soffocata rullata di batteria, i sommessi accordi delle chitarre acustiche e le malinconiche note dell’organo sembrano introdurre immediatamente l’ascoltatore nell’intimo universo del brano. 

Le coordinate spazio-temporali sono vaghe e generiche, liricamente cupe e desolate, e l’immagine di un cerchio rosso sangue sul suolo freddo e scuro battuto dalla pioggia è imperscrutabile

Nel quinto verso, l’io lirico compare in prima persona mentre ascolta le note dell’organo fuoriuscire da una chiesa. La potenzialità uditiva del verso si scontra con l’impossibilità visiva del verso successivo poiché il protagonista non riesce a scorgere i partecipanti alla sacra funzione

Dopo un ritornello in cui i vari “Come on, rise up!” sembrano rivolgersi ai personaggi appena incontrati, la terza strofa riprende musicalmente le prime due, ma vi si discosta da un punto di vista più specificatamente narrativo:

Now's there's tears on the pillow 
Darlin' where we slept
And you took my heart when you left
Without your sweet kiss
My soul is lost, my friend
Tell me how do I begin again

La scena non è più urbana e il narratore non vaga più per la sua città a “filmare” eventi e personaggi. 
Il tono diventa più intimo, la voce di Springsteen sembra affievolirsi, soprattutto dopo l’ondata di speranza sprigionata dal primo ritornello. Con un riferimento al tempo presente (“now”), ci si sposta nella camera del protagonista, mentre invoca la sua donna scomparsa. 

Il lamento dell’innamorato è tragico e doloroso e la potenza retorica della domanda – “Come faccio a ricominciare?” – sembra legarlo non solo ai personaggi incontrati per strada ma a un’intera città che 
cerca di risollevarsi.

Dopo aver descritto uomini persi tra voci e suoni misteriosi, in luoghi tetri e abbandonati, il brano cambia rotta e diventa una preghiera affinché Dio possa concedere a tutti la forza di reagire

Il cambio di registro non avviene solo a livello testuale, ma anche musicale: se nella prima parte del pezzo, infatti,  la voce soffocata e calda di Springsteen in primo piano, delinea il clima angosciato e tragico della New York post-11/09, la seconda parte diventa un gospel carico di pathos e di speranza, in un continuo sovrapporsi di voci. 

Con un andamento cadenzato e simmetrico, i versi legano la richiesta di aiuto al Signore – “I pray Lord”– alla necessità del contatto umano per reagire – “With these hands”. L’ultimo ritornello – “Come on, rise up” – sembra suggellare la definitiva volontà di rinascita fisica e spirituale.

Pur concludendo e condensando l’intero The Rising My City of Ruins fu scritta prima degli attentati terroristici dell’11/09/2001. Il pezzo, infatti, fu eseguito da Springsteen per la prima volta in occasione di un concerto a scopo benefico tenutosi il 18/12/2000 ad Asbury Park (nei pressi di Freehold, sua città natale), come una sorta di preghiera per la cittadina del New Jersey duramente provata da una profonda crisi sociale ed economica.

La mancanza di un qualsiasi riferimento di carattere spazio-temporale a New York City e agli attacchi terroristici, o ad Asbury Park e alla sua crisi, non solo fa coincidere i due scenari ma mostra come quelle tratteggiate da Springsteen per descrivere la distruzione e le rovine delle due città siano essenzialmente delle immagini topiche, declinate e adattate ai differenti contesti.

La musica rock ha sempre fornito un messaggio di solidarietà e di speranza durante i periodi di crisi, e Springsteen, come sostiene Simone Fortunato, ne è sempre stato uno degli interpreti principali:

In quasi trent’anni di carriera, Springsteen è diventato il cantore principe dell’America popolare, non solo degli oppressi e degli emarginati [...], ma anche della classe media, di quella normalità d’America che di solito non ha voce in capitolo. Di più, Bruce canta dell’uomo e all’uomo, in modo realistico e pieno. 
Non gli risparmia le mancanze, le miserie e le povertà, ma nemmeno lo riduce a questo, svolgendo inni al suo infinito desiderio di verità, di bellezza e di gioia.
(Fortunato, 2002).

In fondo, prima di qualsiasi intento ideologico, culturale o politico, il rock di Springsteen si è sempre focalizzato e continua a focalizzarsi sulle persone, e se The Rising racconta una tragedia in cui “la devastazione resta sullo sfondo, mentre il dolore entra nella vita degli esseri umani” (Di Carlo, 2002), My City of Ruins, in particolare, “spinge gli ascoltatori a raccogliere il coraggio e la fede per andare avanti e per  risollevarsi” (French, 2002).


The Rising è il dodicesimo album in studio di Bruce Springsteen, pubblicato il 30 luglio 2002 dalla Columbia Records.

È il primo album pubblicato dall'artista in sette anni, nonché il primo inciso con la E Street Band dopo diciotto anni. Produttore Brendan O'Brien

Sono stati pubblicati 3 singoli:

- The Rising
Pubblicato: 24 giugno 2002
- Lonesome Day
Pubblicato: 2 dicembre 2002
- Waitin' on a Sunny Day
Pubblicato: 22 aprile 2003

Il tour di supporto è durato dal 7 agosto 2002 al 4 ottobre 2003 per un totale di 120 concerti
hanno suonato nel disco:

Bruce Springsteen - voce, chitarra, armonica a bocca, 
Roy Bittan - organo, pianoforte, tastiere
Clarence Clemons - sassofono, cori
Danny Federici - organo, fisarmonica
Nils Lofgren - banjo, chitarra, dobro, cori
Patti Scialfa – cori
Garry Tallent – basso
Steven Van Zandt - mandolino, chitarra, cori
Max Weinberg - batteria
Tiffany Andrews - cori
David Angell - violino
Larry Antonio - cori
David Davidson - violino
Connie Ellisor - violino
Jere Flint - violoncello
Lee Larrison - violino
Edward Manion - sassofono
Brendan O'Brien - Glockenspiel
Lynn Peithman - violoncello
Mark Pender - tromba
Carl Rabinowitz - violoncello
Richie Rosenberg - trombone
Jane Scarpantoni - violoncello
Pamela Sixfin - violino
Michael Spengler - tromba
Julie Tanner - violoncello
Soozie Tyrell - violino, cori
Alan Umstead - violino
Mary Kathryn Vanosdale - violino
Jerry Vivino - sassofono
Kris Wilkinson - violoncello


venerdì 25 settembre 2020

Fantasmi con la chitarra




È uscito ieri pomeriggio il secondo singolo dell'ormai imminente nuovo album di Bruce Springsteen. 

Si chiama Ghosts e aggiunge decisamente intensità emotiva a quella Letter to you a cui si riferisce il titolo del disco (e del precedente brano).

Una canzone e un video che sintetizzano in poco più di 5 minuti una storia, una carriera, una vita.

I fantasmi del titolo sono sicuramente le persone che Bruce ha perso nel corso degli anni, perché soprattutto dal 2000 in avanti, diversi sono stati i lutti che lo hanno colpito e che hanno segnato le sue scelte artistiche.

Ma come sempre, come nel tour del 2012, che celebrava "i grandi assenti" Danny e Clarence con quel minuto di urlo liberatorio da far arrivare più in alto possibile affinché lo sentissero (se noi siamo qui e voi siete qui, anche loro sono qui) la morte è protagonista, ma non vincitrice.

Certo, da diversi anni, l'autore di uno dei più bei dischi sulla voglia di vivere e di raggiungere i propri sogni (si è BORN TO RUN) sull'argomento ci torna spesso, inevitabile, visto appunto le occasioni in cui ci si è scontrato, ma non per questo lo fa in modo triste o meramente elegiaco.

Chi se ne è andato, ha lasciato qualcosa di grande, ha lasciato radici, memoria, strade tracciate da proseguire, ha lasciato giacche di pelle e vecchie chitarre, appuntamenti da rispettare e momenti da far rivivere.

Non piangere perché è finito, sorridi perché è successo, c'era scritto sul biglietto commemorativo di Clarence e sembra che sia questo lo spirito con cui Bruce abbia deciso di onorare la memoria dei suoi cari.

La canzone è nuovamente rivolta a un YOU, che sia George Theiss, chitarrista dei Castiles scomparso 2 anni fa, che sia Big Man o Phantom Danny o Terry o suo padre.

Non importa, ognuno di loro è con Bruce nella canzone e sul palco, sempre.

We are trav'ling in the footsteps
Of those who've gone before

dice quel vecchio gospel che Bruce portò in tour nel 2006, niente di più vero e la carriera del figlio illegittimo di Elvis e Bob è lì a dimostrarcelo.

Sento il suono della tua chitarra, che arriva da un posto mistico e lontano, probabilmente dal paradiso dei musicisti, probabilmente dal profondo del cuore dello stesso Bruce.

Assenza che si fa presenza, vera, concreta, che diventa stimolo e ragione per celebrare, nonostante si parli spesso di morte, la vita stessa.

Sono vivo, ripete più volte nel corso della canzone, vivo e felice di esserlo, perché il protagonista di Western Stars, quello che ogni mattina quasi non credeva alla fortuna di essere sopravvissuto ad un'altra notte, fa parte di Bruce, lo sente aleggiare su di lui come un avvoltoio affamato e allora la reazione è quella di urlare a pieni polmoni che non è ancora tempo.

We are alive, cantava nell'omonimo brano di Wrecking ball, perché siamo ancora, nonostante tutto shoulder to shoulder and heart to heart

Assenza che fa rumore, come stivali sul pavimento di legno, immagine che chiude la prima parte del brano, quella dove i ricordi si risvegliano, si fanno carne e non potendo riportare i fantasmi dal protagonista, portano lui da loro.

Ecco allora che si riunisce la band, che siano i Castiles, gli Steel Mill, la ESB, non importa ora, perché lui è con loro, inforca la chitarra, alza il volume dell'ampli, conta il tempo e si ripete di nuovo la magia, quella della musica, quella del rock che ti salva la vita.

Per chi nella vita si rese conto di non saper fare altro che suonare e stare sul palco, al punto da ammalarsi seriamente una volta sceso, l'esibizione è semplicemente vita, un tutto che ognuno di noi può declinare a piacimento.

Se il testo sembra raccontare in modo specifico le gesta di una rock band, possiamo facilmente farlo nostro, perché ognuno di noi sente che la presenza di qualcuno lontano lo spinge a fare meglio, a fare di più, a vivere un po' anche per quelli che non possono più.

Non faremo prigionieri, si dicono i membri della band per farsi forza e darsi coraggio, non lasciamo nessuno in grado di muovere un solo muscolo, come succede ogni volta che si riaccendono le luci e ci si guarda stravolti dopo un suo show.

Sono vivo, me lo conferma il pulsare del sangue dentro il mio corpo, sono vivo e sebbene sappia che era solo un sogno, averti rivisto mi rende felice (quel rejoice è quasi religioso nel suo significato di riaccendere una fiamma che si stava spegnendo).

Non serve essere musicisti per provare questa sensazione, ve lo possono confermare le mattine in cui mi sono svegliato con gli occhi bagnati e il cuore gonfio di emozione, per aver rivisto mio padre e le mie nonne, certe volte in modo così concreto da sentirli quasi ancora abbracciati a me, con la luce di cui sono composti i loro spiriti che mi accecava.

Il video stesso racconta la sua storia, dai locali dove dovevano montarsi da soli l'impianto agli stadi (SAN SIRO!) pieni di gente in festa, dalle immagini sfocate di ballerini composti, a fans in estasi che suonano batterie immaginarie.

Non è solo celebrazione, ma memoria, come dimostra la scelta di far apparire proprio Danny e Clarence (e il suo enorme sax) mentre il ritornello dice è solo il tuo fantasma che si muove nella notte, spirito pieno di luce.

Bruce non sembra aver paura della morte, non la sfida, ma trasforma il dolore che essa porta con sé in impegno, dedizione, energia e tanto, tanto rispetto per chi ci ha lasciato.

Questo è il messaggio che mi arriva, dalla seconda  lettera che Springsteen ci spedisce: noi che abbiamo ancora in mano la nostra vita, tra i tanti motivi per onorarla al meglio, ricordiamoci anche di tenere accesa la luce che altri ci hanno lasciato in consegna, lasciamoci illuminare da essa e ovunque noi siamo, ricordiamoci sempre to kick into overdrive.

Questo è sicuramente un momento della carriera e della vita di Bruce dove è più portato a fare sintesi, a tirare le fila e rendere più visibile il sentiero per chi volesse percorrerlo. 

Ritorna ancora l'idea del ritorno a casa, della chiusura del cerchio, di chi sa di aver fatto nel corso degli anni "la nostra modesta versione del lavoro di Dio".

E come disse lui stesso al funerale di Clarence:

non saluterò il mio fratello, dirò semplicemente: arrivederci alla prossima vita, di nuovo per strada, dove riprenderemo un’altra volta quel lavoro, e lo finiremo.




venerdì 11 settembre 2020

La lettera di Bruce Springsteen

 


Dopo mesi di voci sempre più insistenti, ieri in contemporanea Bruce ha annunciato l'uscita del suo nuovo album (23 ottobre) e lanciato il primo singolo dello stesso, Letter to You, brano che darà anche il titolo al disco.

Mentre già si è scatenata la solita competizione a chi la fa più lontano, tra assolutisti dal capolavoro facile e scettici per partito preso, in attesa di serate dove trasformarsi nuovamente in fan per salire sul palco, io mi godo questo nuovo capitolo senza volerlo per forza misurare o catalogare, ma cercando di capire cosa possa dirmi nei suo 4 minuti scarsi.

Il pezzo già dal titolo profuma di intimismo e confidenze. Nell'epoca della condivisione con tutti e a tutti i costi, di cui sono sicuramente schiavo, l'idea di scrivere una lettera è così fuori moda da affascinarmi immediatamente. 

In più la copertina del disco è un primo piano di una foto scattata da Danny Clinch in una New York innevata e quasi spettrale.



Lo stesso video in bianco e nero e in presa diretta dallo studio di registrazione mi rimanda al passato, a momenti in cui la musica univa chi la suonava, come sembra confermare la scelta di Bruce di registrare tutto l'album "dal vivo" con la E Street Band in studio.

Sempre a proposito del video, ho notato come compaiano principalmente i membri storici della band, ad esclusione quindi degli innesti più recenti come Soozie Tyrell, Charlie Giordano  (inquadrato fugacemente sullo sfondo) e Jake Clemons, quasi a significare che per l'anteprima del disco, Bruce abbia voluto ripartire dal nucleo storico del suo gruppo storico

Accompagnato da un suono sicuramente riconducibile al marchio di fabbrica E Street, il testo racconta di una persona che si ferma e dedica spazio e tempo alla scrittura di un messaggio per un "you" vago, indefinito e dunque potenzialmente riferito a tutti noi.

Sotto alberi selvatici
Ho tirato via quel filo fastidioso
Mi sono inginocchiato, ho preso la penna
E ho chinato la testa

Togliere un filo, come fosse un sassolino dalla scarpa o un peso dallo stomaco, Bruce si decide a farlo e sceglie una ambientazione carica di solitudine, rappresentata da quei "mongrel trees" che vedo più selvatici (quasi desertici) che bastardi.

Lo svolgimento della lettera è molto semplice, lineare e sincero, dentro Bruce vuole metterci, semplicemente, tutto: il bene ed l male, il buio e la luce, i tempi positivi e quelli negativi; nessuna bugia, nessun filtro

A prescindere da quando sia stata scritta, la canzone sembra rivolta ad una persona del 2020, sembra voler raggiungere qualcuno in questo periodo storico così assurdo, di isolamento e distanze e vuole farlo con un messaggio diretto, privato e quindi personale ed intimo.

Nelle lunghe giornate della primavera scorsa, quanto avrei voluto ricevere messaggi del genere, mentre le ore scorrevano tutte uguali, senza farci capire se e quando qualcosa sarebbe cambiato.

Come al solito, di nuovo, Bruce si rivolge a tutti ma sembra farlo ad ognuno di noi singolarmente.

Cose che ho trovato
Attraverso i tempi difficili e i buoni.
Le ho scritte tutte con inchiostro e sangue
Scavate nel profondo della mia anima
E firmate col mio nome vero
E l’ho inviate nella mia lettera a te.  

Sottolineando con forza quanto di suo ci sia dentro le righe di questa lettera, Bruce mi fa immaginare che stia parlando del suo percorso artistico degli ultimi anni, la biografia dove si è messo a nudo sfuggendo alle facili (auto) celebrazioni, lo spettacolo di Broadway dove la sua nudità è emersa ancora più evidente, come le lacrime di chiunque lo abbia ascoltato raccontare del padre o di Clarence.

Un brano dunque che sembra voler "tirare le fila" di questa esperienza, riportandola nei binari di un rock classico, suo abituale vestito, dopo aver fatto lo scrittore, l'attore teatrale e dopo quella sinfonia orchestrale di riflessioni e malinconia che è stato Western Stars.

Manca più di un mese all'uscita del disco, che conterrà anche brani risalenti a quasi 50 anni fa e l'impazienza inizia a farsi sentire, però sono tranquillo perché come dice lui stesso, so che le sue canzoni sono state scritte "in ink and blood" e tanto mi basta.

P.S. oggi è l'11 settembre e ci sono molte persone che si aspettano un messaggio di vicinanza, forse dopo The Rising Bruce non ha più dimenticato quello che gli urlò il fan mentre era in macchina: WE NEED YOU.

(traduzione a cura di Pink Cadillac)



mercoledì 1 luglio 2020

Blood Brothers



Onestamente non credo a segni o messaggi del fato, ma stanotte ho sognato che il mio migliore amico si portava a letto la mia fidanzata.

Ohibò, ci sono modi migliori per svegliarsi eh, tra l'altro la scena era ambientata più di 20 anni fa, lei era la mia fidanzata di allora, lui è tuttora un mio amico anche se ci vediamo molto poco.

Sempre non credendo a quanto sopra, arrivato a casa dal lavoro ho incontrato sotto casa mia l'unica persona che nella mia vita abbia avuto un ruolo quasi paterno; abbiamo chiacchierato 5 minuti, le cose non gli vanno affatto bene, ma il piacere di rivedersi è stato grande e reciproco.

20 anni fa oggi, al termine del Reunion Tour con la riformata E Street Band, Bruce Springsteen si esibiva per l'ultima sera al Madison Square Garden, dopo una decina di concerti consecutivi.

Del concerto del 1 luglio 2000 è anche uscito il bootleg ufficiale.

L'ultima canzone di quel concerto e quindi di quel tour fu Blood Brothers, inedito mai pubblicato ufficialmente fino al 1995 e ovviamente portatore di un grande messaggio simbolico, in un'occasione simile.

Oggi, per l'ennesima volta, ho sentito nelle note e nelle parole di Bruce la mia stessa vita, le mie emozioni, il mio percorso.

Ci sentivamo in cima al mondo fino all'ultimo
momento
Ma poi le amarezze del mondo arrivarono
all'improvviso, ed eravamo donne e uomini

Ora ci sono così tanti ricordi che svaniscono nel
tempo e nella memoria
Noi abbiamo le nostre strade da percorrere e
possibilità che dobbiamo prendere al volo

Stavamo fianco a fianco e ognuno lottava per
l'altro
Ci dicevamo che fino alla morte saremmo stati
fratelli di sangue

Ecco quindi che questa canzone, oggi, mi riporta indietro, alle persone con cui ho condiviso tanta parte della mia vita e che così tanto hanno contato per me; ecco quindi che provo ancora quella sensazione di essere invincibile, un ragazzo pieno di sogni e speranze (hope and dreams canterà Bruce proprio in questo tour) convinto di avere il mondo in mano, fino al momento in cui la realtà mi si presentò davanti, qualche addio, tante perdite, lutti e lacrime ma quelle battaglie le sento ancora mie, quei passi fatti assieme fanno ancora parte del mio sentiero

Ora la durezza di questo mondo lentamente fa a
pezzi i tuoi sogni
Trasformando in sciocchezze le promesse che ci
facciamo

E quello che una volta sembrava bianco o nero...
ora sfuma in così tante tonalità di grigio
Perdiamo noi stessi nel lavoro da fare e nei conti
da pagare

E' solo una corsa, una corsa, una corsa, senza
nessuno che ti protegga
Con nessuno che corra al tuo fianco, mio fratello
di sangue 

Bianco o nero, certo, l'assolutismo giovanile, quell'estremismo del cuore che rivedo già in mia figlia, mentre tutto attorno a me le cose si sono trasformate in tantissimi grigi diversi. 

Lavoro da fare, bollette da pagare, la vita che va avanti e se ne frega dei tuoi sogni. 

Nelle scorse settimane dovevo fare una telefonata, volevo farla, volevo dimostrare a quella persona che anche da lontano ero vicino a lui, al suo dolore, volevo sapere come stava, ritrovare quella sensazione di poter dire tutto ed essere capito

Ho dovuto trovarmela sotto casa, quella persona, per potergli parlare, lavoro da fare, bollette da pagare, mille cazzate con cui perdere tempo, ma a volte la vita ti regala qualcosa e ti aiuta.

Bruce tornerà su questo concetto proprio nel suo recente Western Stars, nella canzone che chiude il disco, Moonlight Motel e fa calare una cappa drammatica sui personaggi delle sue canzoni.

Qui invece la canzone racconterà un finale diverso, ci saranno altre corse, altre battaglie, altri passi da fare e così è stato per me e così penso ancora sarà.

Attraverso le cose sepolte dal passato... hanno
trovato le loro tracce
Sempre muovendosi avanti e mai guardando
indietro
Ora non so come mi sento, non so come mi sento
stanotte.
come se fossi finito sotto la ruota, come se avessi
perso o acquistato la vista.

Non so ancora perché, non so perché ti ho
chiamato o se qualcosa di tutto questo abbia
ancora importanza dopo tutto
Ma le stelle stanno splendendo come un mistero
svelato
Continuerò il mio viaggio attraverso l'oscurità
con te nel mio cuore
Mio fratello di sangue

La prima versione di questo brano si chiudeva così, in modo dolce amaro, con la continua ricerca di senso a tutto quello attraverso il quale si è passati, con la speranza che questo mistero svelato rafforzi dentro di noi la presenza delle persone care.

Quante volte abbiamo guardato indietro, sperando di vedere quello che eravamo sicuri di aver vissuto, ma rendendoci conto di non aver vissuto affatto, per nulla?

Ma quella sera a New York, le cose andarono diversamente.

Mentre la musica sfuma, Bruce chiama vicino a sé tutti i musicisti, tutta La Banda, tranne Max, Roy e Danny, che reggono il suono.

Si danno la mano, si mettono in fila e inizia la nuova conclusione, di una storia che non si è ancora conclusa.

Ora sono solo su questa strada, solo su questa strada stanotte
chiudo gli occhi e sento così tanti amici intorno a me
nelle prime luci della sera

e le miglia che abbiamo fatto, le battaglie vinte e perse
sono così tante strade percorse, così tanti fiumi attraversati

e chiedo a Dio la forza e la fiducia reciproca
perché è una notte buona per una corsa, fino a questo fiume
e dall'altra parte
miei fratelli di sangue

Sono 20 anni che è successo tutto questo, le lacrime di Bruce ricacciate in gola a forza, quel "let's go" con cui chiama la ripresa della musica e quel modo di attaccarsi all'armonica per scacciare via quel magone, unito alla consapevolezza di aver creato un momento magico, di quelli che solo la Musica può creare.

20 anni dicevo, e da almeno 15 il video di quella canzone è disponibile; non c'è volta che io arrivi al let's go senza singhiozzare come un vitellino, non ce la faccio.

Non è solo la tua band preferita che sta facendo un brano emozionante, è qualcosa che ti scruta dentro, ti fa passare davanti agli occhi amori, amicizie, esperienze, delusioni, scazzi, lacrime e ti devasta l'anima.

Andiamo, let's go, dice, andiamo, e capisci che la strada continua, che ci sono ancora vincoli da rinforzare, telefonate da fare, legami da riallacciare, perchè quello che si è vissuto assieme a certi fratelli, conta ed è prezioso come il sangue che abbiamo fatto scorrere nelle nostre vene in tutti questi anni.

Ho da sempre dei segnali ben precisi che mi fanno capire quando ho bisogno che Bruce venga di nuovo a stazionare pesantemente nella mia vita e di solito si manifestano con momenti di commozione fortissima, in situazioni che non sono commoventi.

Una volta lo avevo capito piangendo a dirotto durante "The E Street Shuffle", oggi, riascoltando il concerto del 01\07\2000 mi è successo durante Light of Day, maratona rock di un quarto d'ora, durante la quale è impossibile stare fermi.

Ci vedremo ancora, dice Bruce ala fine di quel tour, per me in questi 20 anni non se ne è mai andato.



sabato 7 luglio 2018

Il Santo Graal del Rock and Roll (Roxy Theatre, 07/07/78)



Per noi umili servitori del Regno del Rock, noi schiavi inutili, noi soldati semplici delle più sperdute trincee, noi Springsteeniani incalliti ed inguaribili, alcuni nomi, alcune cifre, alcune date, hanno sempre un significato quasi mistico, religioso, le si pronuncia con timore reverenziale, temendo di passare per blasfemi.

Noi, qui, nelle retrovie della periferia dell'Impero, noi che qualcuno era a Zurigo, altri al primo San Siro, molti altri sono arrivati alla spicciolata gli anni seguenti e ancora continuano ad arrivare, abbiamo una concezione tutta nostra del tempo, dello spazio, della storia e della geografia.

Ad esempio, se parlando di Bruce ci capita di leggere 1978 già drizziamo le orecchie, se poi a quell'anno si aggiungono nomi come ROXY THEATRE ecco che la vista ci si appanna, i sensi si fanno più deboli, il cuore rallenta.

Ad un giorno solo dal quarantesimo anniversario di uno dei concerti più famosi nella iconografia springsteeniana, è stato pubblicato come "Official Bootleg", con un audio meraviglioso ed in versione integrale il concerto al Roxy, Hollywood.

Il 1978 fa parte di quei momenti della storia del Rock dove gli eroi erano pochi, ma uno solo sembrava in grado di risultare vincitore.

Bruce nel 1978 era quanto di più vicino all'idea di una Divinità Musicale in carne ed ossa; contro le intemperanze giovanili del punk, che lui assorbiva e sputava fuori con rabbia ancor maggiore, contro il manierismo sterile e masturbatorio del prog, gli assoli di 35\40 minuti, lui rispondeva torturando la sua chitarra prima di esplodere in Prove it all night.

La bandiera del Classic Rock era saldamente nelle sue mani e lui era al momento il migliore che potesse farla sventolare ancora, fiera ed orgogliosa.

Nel 1978 Bruce stava uscendo da un incubo durato 3 anni, nei quali aveva visto la sua musica allontanarsi da lui per colpa di un manager disonesto, aveva visto quella carriera su cui si era giocato tutto sé stesso rischiare di scomparire dietro udienze di tribunale e lungaggini assassine per chi ha un pubblico che aspetta sue nuove pubblicazioni.

3 anni di scrittura compulsiva, amara, furibonda, 3 anni di disillusione, quella di cui poi riempirà il suo capolavoro, anch'esso fresco quarantenne, Darkness on the edge of Town.

3 anni durante i quali però, sul palco, lui ed il suo manipolo di valorosi rinascevano ogni sera, fino a rischiare di morire di nuovo, stavolta in senso meno poetico e più fisico, dopo le interminabili maratone rock con le quali voleva affermare di esserci, di esistere ancora, di essere ancora alla ricerca del modo per andarsene dalla città dei perdenti di cui cantava appunto 3 anni prima.

Abbiamo un po' di rock and roll per voi stasera, dice salito sul palco del Roxy, la sera di 40 anni fa.

E parte con Rave On, Buddy Holly, certo, perchè signori, stasera si fa la storia e per farla bisogna prima conoscerla e riconoscere chi sono i padri fondatori, di questa storia.

Prigionieri? nemmeno uno.

Dalle radici al presente, nemmeno il tempo di un respiro ed ecco Badlands, la novità, la canzone che apre il nuovo disco, la rabbia che viene sputata fuori, mentre i valorosi alle sue spalle non perdono una battuta ed il sax urla forte la sua chiamata alle armi.

Un secondo di silenzio ed eccoli, gli spiriti, quelli che infestano il New Jersey ed i sogni di tanti ragazzi, ecco quella carrellata di umanità ai margini, nascosta, che nella notte americana esce allo scoperto per vivere, finalmente.

Eccola quella Crazy Janey parte costante dei nostri pensieri più carnali, ritroviamoci al fiume stanotte, siamo troppo ubriachi per mentirci ed ognuno di noi ha bisogno di qualcuno che ci dica "Tesoro, lascia che ti guarisca".

Non lasciamo che l'oscurità ci inghiotta e ci nasconda ancora, noi spiriti della notte dobbiamo continuare a correre, per raggiungere quella collina. Darkness è rallentata e rabbiosa, la voce passa attraverso i denti come un ringhio, la belva è ferita ma la catena sta per spezzarsi.

Saliamo, che nessuno ci faccia domande, che nessuno ci guardi troppo a lungo. quelli fortunati, nati sotto una buona stella, fanno altri percorsi, da qui passano solo quelli disposti a combattere per davvero.

Ancora nuovi brani, con la stanza di Candy che sembra irraggiungibile, in fondo ad un corridoio che ci ricorda nuovamente il buio, scostando sconosciuti che vogliono rubarcela, avanziamo, la batteria aumenta come il battito cardiaco, la porta è ad un passo, chiudi gli occhi, hai ancora molto da imparare, prima di raggiungere i mondi nascosti che splendono.

Si tira il fiato, For you parla di amore, in quel modo dylaniano, sghimbescio ed obliquo tipico dei suoi primi lavori, quelli con dentro talmente tanti personaggi, tante storie, tante emozioni che il risultato è un calderone tanto incomprensibile quanto affascinante.

A ricordarci che l'amore, come la vita, ha due facce e non è detto che a noi tocchi in sorte quella migliore, ecco Point Blank, tradimento, delusione, sogni infranti, la sua vita che scorre dentro queste note, come veleno distillato, di cui ancora non esiste antidoto.

Di fronte al tradimento, l'unica vittoria è affermare la propria identità, davanti alla falsità, l'unico strumento a nostra disposizione è la nostra coerenza e la nostra cocciuta testardaggine. Non sono un ragazzo, sono un uomo e come tale devi trattarmi ed è per questo che io mi dirigo senza paura dritto nella tempesta, perchè sarà il mio essere uomo a farmici uscire a testa altissima.

Cosa ci resta, cos'altro può fare un povero ragazzo se non suonare in una rock band? Ci resta una chitarra, tre accordi e la verità, ci resta la voglia di sbatterla fino a farla sanguinare, ci resta la rabbia da sfogare sulle sue corde, ci resta la possibilità di provarci, sempre, di provarci tutta la notte.

Ci resta una strada, lunga come solo quelle americane possono esserle, ci resta una striscia d'asfalto su cui gareggiare, per sottolineare la differenza tra noi e quelli che semplicemente rinunciano a vivere e muoiono, poco a poco, pezzo a pezzo.

Il pianoforte di Roy illumina quell'asfalto, lo rende percorribile e sul finale lo allunga a dismisura, perchè non debba finire mai, come vorremmo non finisse mai lui di muovere le sue dita sui tasti.

La prima parte del concerto si chiude con Thunder Road, il piano di Roy non esce da Racing ma entra direttamente nel cortile di Mary ed ecco, la promessa, l'obbiettivo, la voglia di farcela, che tornano prepotenti ed imbattibili alla ribalta. Possiamo farcela, se corriamo, dobbiamo farcela, con lei sul sedile di fianco ed un sassofonista nero di due metri tra le cui braccia scivolare a fine canzone.

Poi si continua, carne e ideali, sesso e sogni, She's the one che nasce da Bo Diddley e dentro la sua musica finisce, per una scopata memorabile, Adam che ci ricorda una volta di più quali sono i nostri peccati e le nostre fiamme e quanto ci debba costare liberarci da esse.

La tensione universale di It's hard, dove la debolezza dell'uomo è messa a dura prova, dove la voglia di andare avanti subisce mille ostacoli.

Si arriva alla sarabanda finale di Rosalita, ma prima è giusto tornare alla Storia, quella che ci trascina dentro a questo teatro allora come oggi, quella che in un pomeriggio caldissimo di luglio ti fa mandare moglie e figlie al mare per restare 3 ore solo con lei. Elvis, certo, chi altro?

La bussola del rock, da sempre la sua bussola personale, traccia nuovamente la mappa dove si svolge questa storia, quella che da Tupelo arriva ad oggi, passando per il Roxy, il Cavern Club, l'Apollo e Dio solo sa quanti altri posti dentro i quali ancora oggi aleggia lo spirito del Rock.

Bruce che canta Elvis è qualcosa che va ben oltre l'omaggio e la cover, è Amore, è Devozione, è fedeltà ad un verbo ed impegno a tramandarlo. 

Bruce che canta Elvis è come avere due top model nel letto che ti pregano di trombarle, entrambe, subito.

E poi arriva Rosie, arriva e scappa con noi, in un posto dove non ci possano trovare genitori isterici e discografici bugiardi, a pretty little place in southern California, un posto dove le chitarre suonano giorno e notte, il paradiso del rock, dove Elvis dice Messa ogni giorno.

Su Indipendence Day non esiste parola che non abbia già detto o lacrima che non abbia pianto, qui viene presentata senza che sia mai stata pubblicata ufficialmente, lo farà solo due anni dopo, viene suonata leggermente più lenta e così facendo le pugnalate che mi arrivano tra cuore e stomaco sono più profonde e dolorose, perchè vorrei, con tutto me stesso fare in modo che a me non facciano quello che ho visto fare a lui.

Ancora rock, ancora sesso e fuga, sogni, corse, la notte che appartiene agli amanti ed un sole su cui camminare, un giorno, ma fino ad allora lasciamo tutto da parte per un attimo o per tre ore e facciamoci investire dalla musica e facciamoci lavare dalla sua acqua benedetta e peccaminosa, purificatrice e densa come la passione.

Due cover chiudono la serata, perchè se sei consapevole di far parte di una storia, non hai nessun timore a citarla, apertamente, quindi dopo Buddy ed Elvis, ecco la black music, il soul ed infine i Beatles, con la miglior party song mai incisa.

Twist and shout chiude in gloria, ancora non si capisce come abbia fatto il teatro a restare in piedi, la band saluta, io immagino il pubblico stranito, che guarda verso il palco quasi a chiedersi se sia successo davvero, quello che hanno visto e sentito succedere nelle precedenti 3 ore.

La storia del rock si è fermata ad Hollywood, giusto 40 anni fa, il respiro lentamente riprende il suo ritmo, il battito del cuore torna regolare, la tastiera è di nuovo visibile, gli occhi sono asciutti, ma la pelle d'oca è ancora alta, nonostante il caldo afoso.

Da qualche parte lassù o in un atollo sperduto delle Hawaii, un tizio posa le cuffie, si sistema il ciuffo, indossa il suo giubbotto di pelle e soddisfatto dopo quanto ascoltato, sale sulla sua Harley e riprende il suo vagabondaggio.

Qui, nella periferia dell'impero, qui, nella trincea dei superstiti, il rancio oggi sembrava molto buono, quasi come fosse un giorno di festa.