mercoledì 20 giugno 2018

Una montagna troppo alta da scalare (Ciao, Don)



(Foto di Paolo Tavaroli)

La prima cosa che mi viene in mente pensando a Don Sappa è questa strofa di un pezzo di Venditti.

È una frase che ho pensato spesso riferita a mio padre, ma anche a lui, il primo parroco del Sacro Cuore che conobbi, bambino, quando iniziai a frequentare la parrocchia davanti a casa.

Un omone burbero di una bontà infinita, ma alto quasi due metri e con due mani grandi come badili.

Ragazzetto poi, da assiduo frequentatore dei due campi da calcio dell’oratorio, ricordo il terrore che ci assaliva quando lo vedevamo uscire da casa sua, di fianco al campo piccolo, temendo che stesse venendo a prendere qualcuno di noi colpevole di qualche improperio di troppo.

Una montagna, ma di bontà, cultura e testimonianza, anche se lo capii dopo, più adulto, quando non era più la spauracchio dei bestemmiatori, ma un punto di riferimento saldo come una roccia, come una montagna, appunto.

Abbiamo avuto diversi momenti di condivisione, esclusiva, io e lui e le sue parole mi colpivano al cuore ed al cervello, mi davano le coordinate esatte per camminare sulla strada che mi indicava e soprattutto me ne dava motivazione e stimolo.

Senza dimenticare quella caratteristica che me lo ha reso carissimo e meraviglioso, essere uno juventino sfegatato.

Di Don Sappa, oggi che è tornato alla casa del Padre, voglio ricordare anche e soprattutto episodi indimenticabili legati alla nostra comune passione calcistica.

Ad inizio anni 80, mentre in serie A lo scontro al vertice era tra juve e roma, noi ragazzini passavamo le domeniche pomeriggio al campetto a giocare a calcio; eravamo tanti, quindi si giocava a turno e chi stava fuori ascoltava "Tutto il calcio minuto per minuto".

La domenica di roma – juventus di non so bene che anno, però, la partita alla radio era più importante di quella tra di noi, quindi eravamo tutti attorno all'apparecchio.

Ad un certo punto arrivò il Don; scese il silenzio, lasciammo parlare ciotti ed ameri.
“Juve in attacco, palla a platini, cross, caricola, caricola, porta vuota!!!! FUORI!!!”

Il gelo. 

Buona parte di noi si morse la lingua, altri pregarono di trattenere l’imprecazione che sentivano arrivare dalle viscere e salire su fino in gola.

Finchè il Don dopo 3 secondi di totale silenzio e apnea collettiva, esclamò “CARICOLA!!! FIGLIO DI PUTTANA!” Boato che manco ai gol, altro che scudetto, quella era una liberazione, una rivelazione!!  

La sera della finale di champions del 1996 andai a vederla da amici; scesi ad aspettarli e vidi il Don davanti all'ingresso dell’oratorio; andai a salutarlo per due parole di conforto vista la tensione, mi accorsi che era pallido. 
Don, tutto bene? No, per la tensione ho sentito che il cuore mi stava dando dei problemi, così per tranquillizzarmi mi son fatto un whiskyino.

Andò come andò, stranamente, e tutti noi che eravamo a vedere la partita, prima dei caroselli per strada, decidemmo all'unanimità di andare da lui. 

Era di nuovo davanti all'ingresso, con un sorriso felice. Gli saltammo addosso in 4, tutti più o meno della mia stazza; lui ci abbracciò tutti e 4 e ci sollevò, mormorando solo “che bello.. che bello..”.

Il Don si ritirò e per molti anni non lo vidi più, fino a quando nel paese di mia moglie dedicarono una piazza al parroco storico, che arrivò proprio dal sacro cuore di albenga, dopo essere stato il suo vice. Malfermo sulle gambe, ma sempre la montagna di bontà e Fede che ricordavo, felice di rincontrare i suoi parrocchiani, mi riconobbe immediatamente e mi abbracciò con la stessa forza di quella sera di festeggiamenti.

Don Sappa, una bussola per noi che cercavamo di dare un senso alla nostra vita ed a quelle parole che ascoltavamo spesso senza coglierne a pieno il significato.

L’ho rivisto per l’ultima volta quando al Sacro Cuore si festeggiarono i 100 anni del mio gruppo scout.

Celebrò la Messa quasi sempre seduto e fece l’omelia. Anzi, non fu un’omelia, fu il suo saluto, finale. 

Un uomo sereno ed in pace, che ringraziava Dio per quello che aveva avuto e si approntava a percorrere il suo ultimo tratto di strada; una serenità, una gioia che mi lasciarono sbigottito. Un uomo anziano e del tutto consapevole che il suo tempo stava finendo, ma che più che di questo, si preoccupava di ringraziare il Signore per il tempo che aveva vissuto.

Ho parlato di lui nell'oratorio vicino a casa nostra, mentre molti bambini riempivano il campetto di felicità e voglia di giocare, proprio come facevo io le domeniche di 35 anni fa mentre il Don guardava soddisfatto, lui che rese quel posto la migliore interpretazione del “lasciate che i bambini vengano a me” così cara a Nostro Signore. Gli sarebbe piaciuto questo posto.

Ora che ha ritrovato il suo caro amico Giacumìn, chissà che partite che organizzeranno per i bambini in paradiso.

Ciao Don, forza juve


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