(Foto di Graziella Russo)
Per provare a spiegare cosa pensi io dei Pearl Jam oggi, nel 2018, 26 anni dopo averli conosciuti, vi racconto due episodi del concerto di Padova di qualche settimana fa.
Black, cantata come al solito
insieme al pubblico, che si conclude con l’ormai classico coretto che pian
piano sostituisce i musicisti e allunga la canzone a seconda dello stato d’animo
di Eddie.
A Milano nel 2006 la cosa fu
talmente spontanea e partecipata che Vedder si commosse e ringraziò dicendo “avete
sistemato il mio cuore infranto”.
A Padova, 12 anni dopo, Eddie ha
guardato il pubblico, lo ha incitato a cantare e poi è scoppiato in una risata
felice.
Ancora più chiaro, per la mia spiegazione
è il momento di Alive, a tutt’oggi indiscusso simbolo della loro carriera, con
il suo carico di turbe giovanili, dubbi pesantissimi (sei ancora vivo, mi
disse, ma me lo merito? E se fosse così chi potrebbe dirlo?) e catarsi.
Per introdurla, cosa già
particolare, perché soprattutto ad inizio carriera Eddie parlava pochissimo,
Vedder si lancia in un aneddoto relativo alla sfortunata serata di Venezia di
qualche anno fa, quella del nubifragio e del concerto annullato, racconta di
amici, di cene andate per le lunghe, battelli persi e necessità di trovare un
posto per dormire, racconta di personaggi poco raccomandabili e mogli incazzate.
Un paio di minuti dove nonostante
la difficoltà della lingua (sopperita in parte dal tentativo sempre
apprezzabile di leggere le traduzioni in italiano) in pochi all’Euganeo non
scoppiano a ridere, vuoi per i padroni di casa cocainomani, vuoi per quel “Oh Jesus
Christ!” così spontaneo ed empatico.
Il tutto senza capire dove
volesse andare a parare.
“E quella volta esclamai sono
felice di essere ancora vivo!” dice mentre Stone attacca il loro riff più
celebre.
Ma come? Un brano così
drammatico, che parla di padri ignoti e di quello già detto sopra, introdotto
da una storia da bar?
Il punto, a mio avviso, è questo:
Eddie Vedder oggi è una persona felice, felice e serena. Consapevole del suo
ruolo, consapevole della situazione del suo paese, niente affatto impaurito nel
prendere posizione.
Ma felice.
Di fronte a questo, ci si può
allontanare da un gruppo che partendo dai malesseri e dall’introspezione anche
molto cupa riusciva ad arrivare ad una catarsi molto positiva e che forse oggi
in certi brani, di quelli più recenti, viaggia col pilota automatico (Can’t
deny è proprio leggerina).
Oppure, preso atto di questo, si
può apprezzare la loro professionalità, la loro grande carica e la loro
passione nel riproporre i loro brani più vecchi senza che questi perdano di
credibilità, nemmeno dopo introduzioni semiserie. Oppure si può essere contenti
per lui, per loro e in qualche modo con loro; loro che hai conosciuto da
ragazzo parecchio disorientato e che ti hanno accompagnato, non importa se con
album più o meno memorabili (più i primi dei secondi, comunque) ma con quella
onestà di fondo, quella capacità di parlarti che non è mai venuta meno, nemmeno
nella succitata Can’t deny, leggerina si, ma utile nel ricordare di metterci la
faccia, sempre.
A Padova sono arrivato molto, ma
molto impaurito per le condizioni della voce di Eddie, il concerto di Londra
annullato, quello di Milano a mezzo servizio, forse meno. Preoccupato al punto
da rilassarmi solo quando sulla pagina ufficiale del gruppo è comparso il
manifesto della serata, a conferma che il concerto si sarebbe tenuto, evento
che almeno io non davo affatto per scontato.
A 25 anni dalla prima volta,
nemmeno troppo distante da qui, Verona in apertura degli U2, i PJ sono oggi dei classici del Rock; lo si capisce da come
stanno sul palco, da come suonano, dall’età media del pubblico, oltre che dalla
loro.
Musicisti incredibili che per 2
ore e 45 minuti mi hanno rinfrescato la memoria sui tanti motivi per cui li ho
amati da subito.
Fugati rapidamente i dubbi sulla
voce di Eddie, dopo la partenza tranquilla esplodono in un vortice di rock che
pesca a piene mani dai loro primi dischi, con Daughter utile a tirare il fiato
e a dichiarare ancora la propria posizione politica, prima di una meravigliosa
e da me inaspettata Red Mosquito (insieme a God’s dice la sorpresa della
serata).
Mind Your Manners mostra il
fianco alla produzione antecedente ad essa, ma Down riassume in una sola strofa
quello che è il loro insegnamento a me più caro “Non puoi essere neutrale, su
un treno in movimento”, frase nemmeno loro, ma adattissima alla loro storia ed
ai miei ideali.
Spin the black circle e Porch mettono
a dura prova la resistenza del pubblico, in un Euganeo orribile da un punto di
vista estetico, ma funzionale e soprattutto parecchio pieno.
Primo bis che inizia riflessivo
con il quadretto familiare e comunitario di Small Town e la psicanalisi in note
di Inside Job (capolavoro a firma del gigantesco Mike McCready), prosegue con
Once e Betterman, oltre alla Black di cui ho già raccontato.
Accoppiata clamorosa Crazy Mary e
Rearviewmirror, la prima in una versione dilatata da assoli preziosi di Boom e
Mike, che si alternano ed accavallano per una decina di minuti di assoluto
godimento.
“Quello che ti fa più paura, potresti
trovarlo a metà strada” cantava la brava Victoria Williams in questo splendido
ritratto americano, tra i matti del villaggio, i vagabondi ed una bottiglia che
in ogni caso si deve condividere.
Lascio che la musica mi avvolga e
mi investa, gustandomi ogni singolo istante, come si capisce dalla foto,
scattata proprio durante questa canzone.
RVM frantuma ogni resistenza,
brano che adoro da sempre, porta con sé una forza che nessuna valvola di sfogo
ha mai eguagliato, finalmente le ombre si stanno diradando canta Eddie, frase
oggi ancor più vera di allora, per lui, ma anche per me, che con le loro
canzoni sono passato attraverso momenti brutti, pessimi e orrendi, ma che ora
posso godermela senza sentirmi dentro quella rabbia che spesso tiravo fuori grazie
all’ugola di Vedder.
Si riprende con Smile e la già
citata Alive, che introduzione a parte è comunque un pezzo che non dovrebbe mai
mancare nei loro concerti; sui dubbi sul meritarsi di essere vivo non ci hanno
costruito solo loro qualcosa, ma ancora oggi spesso è un quesito che mi torna
alla mente, soprattutto da quando lavoro a contatto molto più stretto di prima
con il dolore e la morte stessa.
Un brano che mi si è appiccicato
addosso da quando la ascoltai nella mia “young man’s room” e che funziona
benissimo da personale cartina di tornasole.
Baba O’Riley ed Indifference
chiudono la serata, perché sarà pur vero che qui è tutta una “teenage wasteland”,
ma queste tre ore mi hanno ricordato l’importanza di urlare fino a riempire le
stanze di quella che chiamo casa e che per quanto veleno si possa ingoiare,
arriverà il momento in cui ne diventeremo immuni.
Questa è la differenza, la
differenza tra uno spettacolo rock ed un loro concerto. Il fatto che alla fine,
il motivo per continuare a credere in quello che si fa, nelle proprie idee, sia
più forte di ogni pugno ricevuto.
Ed allora come cantava Daltrey,
abbiamo diritto ad una Sally da tenere per mano, per raggiungere un posto là,
verso sud, prima di essere troppo vecchi.
Fa strano cantare questo brano,
in uno stadio dove l’età media è ben oltre quel “hope I die before I get old”
degli stessi Who; strano ma intenso, perché alla fine ben più della carta di
identità, sono i nostri valori e le nostre emozioni a tenerci se non giovani,
sicuramente vivi, valori per i quali debba valere la pena combattere, canzoni
per le quali valga la pena commuoversi, dentro le quali vedersi e conoscersi
meglio.
Sono un gruppo felice oggi i PJ,
suonano rilassati, consapevoli di essere per certi versi dei sopravvissuti, ma
non per questo appagati o annoiati. La loro ferocia sugli strumenti mi ha
confermato quella che io ritengo la loro dote principale, che va oltre la
qualità dei singoli brani, ossia la buonafede.
Cantare Alive a 50 anni suonati
non è la stessa cosa che cantarla a 25, ovvio, ma cantarla oggi significa avere
ancora chiara la responsabilità che ci si assume salendo su un palco davanti a
persone, ragazzi, uomini e donne, che dentro i tuoi pezzi cercano motivi e
spunti per dire si, mi merito di essere ancora vivo.
2 commenti:
Splendido articolo. Condivisibile dalla prima all'ultima parola. Io li ho visti a Milano nel 2018. Eddie non era affatto in forma eppure per non deludere tutti noi ha cantato... e ha fatto cantare noi... si hai detto bene. La buona fede, la passione per ciò che si fa.. e non conta che tu abbia 25 o 50 anni. Se è autentica, tale rimane.Grazie.
Giusi
Grazie a te giusi!
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