Nel mese di febbraio 1994
avevo appena iniziato il mio primo anno di tirocinio professionale,
presso un Servizio di Salute Mentale di Genova.
Mi ero recato presso l'ex ospedale psichiatrico di Genova Quarto, dove con cadenza mensile
tutti gli assistenti sociali dei Servizi di Salute Mentale genovesi
si riunivano per un incontro di coordinamento.
Non avevo ancora imparato
uno dei cardini della professione, cioè che l'assistente sociale è
sempre in ritardo, né ancora conoscevo bene la città, quindi ero
arrivato con un certo anticipo e per ingannare l'attesa avevo cercato
all'interno della struttura un bar per un caffè.
Trovai un bar gestito
e frequentato praticamente solo da ex utenti dell'ex ospedale
psichiatrico. Bevvi il mio caffè più rapidamente possibile e uscii, con negli occhi e nel cuore delle immagini che ancora
adesso non mi hanno abbandonato. Si può essere morti pur vivendo? Si
può guardare senza vedere? Si può rappresentare il vuoto dell'anima
e del cuore? In quei 5 minuti passati in compagnia di quelle (ex?)
persone ho trovato purtroppo le risposte a queste domande.
Persone abbandonate,
svuotate, appoggiate su una sedia, ecco il mio impatto con gli utenti
della Salute Mentale, ecco il “manicomio”, ecco uno spaccato del
disagio che stavo studiando come affrontare, che avevo scelto come
oggetto della mia futura vita lavorativa.
Nessuna differenza tra
chi stava da una parte o dall'altra del bancone, a parte la (minima)
capacità di fare un (pessimo) caffè. Chissà, forse quella era la
caratteristica che faceva del barista un qualcuno, qualcuno che
spiccava tra gli altri compagni.
Al di là delle battute
sull'arrivare in ritardo, quel giorno ho imparato due cose, che
ancora oggi mi sforzo di avere sempre a mente, soprattutto al lavoro.
La prima è che comunque
vada la mia vita, difficilmente e raramente avrò il diritto di
lamentarmene, soprattutto per motivi futili e banali.
La seconda è che nessuna
malattia, fisica, psichica o, perché no, sociale deve ridurre un
uomo e la sua dignità in uno stato come quello degli avventori di
quel maledetto bar.
Nell'ottobre 2003, nel
Comune dove stavo lavorando, viene ricoverato G.
G è quello che in
passato era definito “il matto del paese”, persona con evidente
ritardo mentale (ha 48 anni e ne dimostra 10), ma amata da tutti, da
tutti aiutata e rispettata. G viene da una vita di insulti, minacce e
botte, che se non lo hanno ridotto così da sole, forse ne sono una
delle principali concause.
L'ufficio servizi sociali
è per G la sua seconda casa, qui lavorano le due assistenti
domiciliari che lo vanno a trovare ogni giorno, qui ci siamo io ed il
mio collega a cui puntualmente ogni lunedì G viene a raccontare il
Gran Premio di Formula 1 del giorno prima.
Io e G siamo andati
insieme a comprargli le scarpe da ginnastica, siamo andati insieme a
comprargli l'orologio nuovo, il televisore.
Io e G quando lo avevano
dimesso dopo un breve ricovero avevamo fatto il giro del paese
suonando il clacson perché tutti sapessero che era tornato.
G sta male e viene
ricoverato; mentre aspettiamo l'ambulanza, sdraiato sul pavimento
dove ha dormito tutta la notte perché non riusciva né ad alzarsi,
né a chiedere aiuto, G piange e mi tiene la mano (spesso penso a lui
anche oggi come il figlio maschio che non ho ancora avuto).
Cerco di consolarlo e
quando lo caricano sull'ambulanza lui, rasserenato, mi dice che si,
ho ragione, tornerà a casa meglio di prima “perché ormai ho
una certa età e mi devo trovare una moglie ed un lavoro”.
Una moglie ed un lavoro.
Per farsi forza, G sognava queste due cose, una famiglia e qualcosa
da fare durante il giorno.
G, che purtroppo a casa
non ci è più tornato, nella sua mente ingenua aveva comunque chiaro
cosa voleva dire “essere adulti”. Il lavoro è “una cosa da
grandi”, il lavoro ti rende adulto. E normale.
Nel mese di marzo 2009
sono a Torino per una serata con gli amici; un gruppo di loro suona
le canzoni di Bruce Springsteen, in un circolo in centro.
Il Caffè Basaglia lo
conosco così, grazie ai miei amici ed alla mia passione per la
musica.
Ma il Basaglia, scopro
quella sera, è molto di più. Circolo ARCI, nato e coordinato da uno
psichiatra, gestito unicamente da suoi ex pazienti.
Così tra una birra ed
una canzone li vedo all'opera, camerieri, baristi, cuochi.
E subito penso al bar di
Genova Quarto, dove aleggiava la morte se non del corpo, sicuramente
dell'anima; mentre qui il barista oltre a fare un caffè migliore, ha
stampata in fronte la gioia di essere lì in quel preciso momento a
fare quelle precise cose.
Mentre uno dei camerieri
mi confessa in segreto di essere il figlio di Al Bano e che uno dei
cuochi in realtà è Osama Bin Laden, penso a G, alla sua voglia di
essere in mezzo alla gente, di parlare, raccontare, scherzare,
giocare.
Come mai è così
importante lavorare? Certo, senza soldi non si va avanti, ma davvero
è solo questo il motivo?
Molto spesso parlo del
mio lavoro sotto due punti di vista.
Il primo è il fatto
lampante, che io sono un dipendente pubblico, il che mi porta ad
essere oggetto di battute e luoghi comuni sul fare poco e niente,
sull'aspettare il 27 del mese.
Però spesso sottolineo
maggiormente l'aspetto “morale” del mio lavoro e la fortuna che
ho nello svolgerlo. Fortuna, e non merito, perché il mio lavoro,
grazie alle situazioni che mi fa affrontare, alle persone che mi fa
conoscere, mi ricorda sempre quanto io sia comunque un privilegiato e
mi aiuta a capire quali siano le cose davvero importanti nella vita.
Ma è così per tutti?
Spesso, quando il lavoro
mi pesa, quando la giornata sembra non finire mai, cerco di ricordare
almeno un paio degli episodi che ho raccontato sopra, per capire
realmente chi sono e quanta fatica sto facendo.
Il lavoro di per sé è
comunque uno status.
Tu sei in quanto lavori.
Tu sei in quanto fai.
Tu sei in quanto produci
(e spesso tu sei in quanto consumi).
Se queste regole sono
valide per tutti, a maggior ragione lo sono per chi deve lottare per
guadagnarsi quantomeno lo status di “normale”, male che vada di
“solo un po' strano”.
Se queste regole sono
vere, per loro valgono molto di più, perché il lavoro è uno
strumento con il quale cambiare la propria condizione, con il quale
cambiare il modo in cui si appare agli altri, il loro status, spesso
addirittura la loro vita.
L'aspetto economico forse
ha un ruolo limitato in questo discorso, forse assume importanza solo
ad un livello più “alto”; fatto sta che “il lavoro” è una
patente che ci permette di entrare in posti ed in situazioni magari
sempre soltanto immaginati.
Così come anni fa c'era
il mito del “posto fisso”, ora è forte la suggestione
dell'indipendenza, soprattutto economica. Tale suggestione non può
non riflettersi su ogni fascia di popolazione, anche le più deboli,
anche le più bisognose di protezione.
Al giorno d'oggi, tanto è
forte il mito del lavoro, quanto lo è la crisi che attanaglia il suo
mondo.
L'immobilismo in cui
sembra versare in modo irreversibile il nostro paese rende una sfida
difficilissima l'ottenimento di un lavoro che renda davvero autonomi
e che, parlando da un punto di vista “professionale”, metta in
grado la persona di autodeterminarsi.
Così, lo stesso concetto
di “fasce protette”, sotto la cui ala si riparavano molte
categorie, tra cui i pazienti psichiatrici, sta perdendo non solo
importanza, ma urgenza, significato e priorità.
In un mondo che non
assicura un lavoro a chi compie percorsi scolastici a volte
decennali, come si possono tutelare le fasce protette? Che spazi, che
mansioni possono essere dedicate a loro, senza sottrarle ad altri,
magari più titolati?
All'interno della
drammatica partita che generazioni intere stanno giocando per
ritagliarsi un ruolo lavorativo, si corre il rischio di considerare
automaticamente “in panchina” chi non è in grado di fare da
solo.
L'importanza della
riabilitazione spinge dunque a chiedersi se e quanto il lavoro sia
utile, specie alle attuali condizioni. Credo sia doveroso affrontare
questi temi, con lo sguardo privilegiato di chi cerca di occuparsene,
insieme ai servizi specialistici.
Del resto, penso di
essere in debito, con G e con i baristi, camerieri e clienti, di
circoli o bar all'interno di ex ospedali psichiatrici.