martedì 22 marzo 2011

conclusioni



Redigere questa prova finale mi ha portato ad una profonda riflessione sul mio lavoro e sul modo in cui l'ho svolto in questi 15 anni. A differenza del 1996, oggi credo di avere un bagaglio di esperienza sufficiente per poter svolgere un parallelo tra pratica e teoria, contemporaneamente, mentre 15 anni fa l'esperienza pratica del tirocinio, seppur soddisfacente, non bastava per riequilibrare la teoria di 3 anni di università.
Quindi mentre sviluppavo la mia prova finale, ho avuto modo di ripercorrere questo cammino, guardarmi indietro e riuscire ad affiancare i due aspetti (pratico e teorico) della professione, al fine di sfruttare la ricchezza che questo, seppur breve, nuovo percorso universitario mi ha offerto.
Nel corso di questa prova finale ho parlato dei Centri di Salute Mentale ed ho sottolineato come spesso al loro interno, l'assistente sociale dovrebbe ricavarsi uno spazio diverso, per evidenziare l'importanza dell'aspetto sociale della cura al disagio psichico; l'argomento specifico della prova finale, poi, è esemplificativo di questo discorso: creare un circolo virtuoso tra società, servizi ed utenza non può che portare benefici a tutti gli attori coinvolti, benefici in termini di salute e di benessere sociale, appagamento, autodeterminazione. Di questo circolo, l'assistente sociale deve essere attore protagonista, tra i principali fautori della spinta positiva che esso comporterebbe, ma purtroppo ho anche riscontrato che spesso non è così.

L’ansia di vivere e di possedere

Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull'efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte.
L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. Tutto questo ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica. Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo. Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi. Allora anche il confronto con il dolore dell'altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all'altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità.
Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l'angoscia di morte che ne deriva.
Possiamo evocare la pietas cristiana e citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara, che nella lettera ai figli esorta a sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la nostra. Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che professioni come l'assistente sociale piuttosto che lo psichiatra siano gli «specialisti della sofferenza».

In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e cattivi, in giusto e sbagliato, senza appelli, né legittimi dubbi.
Io sono fermamente convinto, lo ero prima lo sono a maggior ragione oggi dopo 15 anni di lavoro e dopo questo bel ripasso salutare alla mia preparazione teorica, che gli assistenti sociali meritino molto di più di quello che stanno ottenendo attualmente, in termini di responsabilità, di visibilità e di riconoscimento professionale.
L'area della salute mentale sulla quale mi sono soffermato per la mia prova finale è ricchissima di spunti da cui la professione può partire per rivalutare il proprio ruolo di traino e coordinamento non solo all'interno dei servizi stessi, ma verso la società tutta.
Le idee come quelle sviluppate in Valbormida, piuttosto che al Caffè Basaglia o all'UCIL devono vedere l'assistente sociale in prima linea e contemporaneamente in cabina di regia: quante altre professioni tra quelle operanti nel Welfare possono vantare una preparazione così variegata e differenziata? Gli specialisti, soprattutto i medici, avranno sempre diritto di far valere la loro differente competenza, ma l'assistente sociale non può più esimersi dal reclamare lo spazio adatto affinché il suo ruolo di ponte e regista di una società migliore sia riconosciuto a tutti i livelli.
Creare lavoro dal nulla non si può, né sarebbe corretto addossare tale responsabilità a chiunque; ma se la sussidiarietà diventasse realmente un principio cardine della nostra società, ecco che si creerebbero le condizioni per quel circolo virtuoso di cui parlavo all'inizio di questo capitolo, condizioni che permetterebbero a tutti, iniziando, come sempre, dagli ultimi, di investire sé stessi e le proprie potenzialità in un sistema che valorizza e non nasconde, in un ambiente che aiuta a svilupparsi senza fare elemosine, in un mondo dove ognuno si sente responsabile almeno in parte di chi gli sta accanto.
Ed in questo mondo che tanto desidero, anche Johnny, i baristi del bar di Genova Quinto e quelli del Caffè Basaglia, sicuramente vivrebbero meglio.

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