venerdì 6 aprile 2012

La nota giusta - Austin, 15 marzo 2012


(se posso darvi un consiglio, aprite il video in un'altra finestra e cercate di seguirlo leggendo la traduzione)
 
(di Bruce Springsteen)
 
Buongiorno!
Che cazzo ci facciamo tutti svegli a quest’ora? Quanto potrà mai essere importante un discorso che si tiene a mezzogiorno? Non tanto, secondo me. A quest’ora tutti i musicisti degni di questo nome dormono, o comunque dormiranno prima della fine del mio intervento, ve lo garantisco!
Quando mi hanno invitato a tenere il keynote speech, il discorso d’apertura di quest’anno, ho tentennato un po’, perché la parola «keynote» mi metteva a disagio. Sembrava suggerire che esistesse una «key note», un’unica «nota-chiave» capace di riassumere tutto quello che sta succedendo là fuori, per le strade.

Cinque giorni di band, centinaia di locali aperti da mattina a sera, eppure non si riesce a trovare due persone che la pensino allo stesso modo sul pop. Non esiste una nota-chiave, non credo proprio. Niente si può spiegare con una teoria univoca. Chiedete a Einstein. Però potete prendere una band qualsiasi, mettiamo i KISS, e dire «Tra i primissimi esponenti del rock teatrale, espressione autentica della rabbia giovane di una generazione», oppure «Fanno schifo!». Potete dire «I Phish: eredi dello scettro dei Grateful Dead, il nucleo più brillante della vera comunità alternativa», oppure «Fanno schifo!». Potete dire «Bruce Springsteen, un poeta nato, un genio che viene dalle strade della Contea di Monmouth, l’artista del New Jersey che lavora più sodo di chiunque altro nello show business, la voce dell’uomo comune, il futuro del rock and roll!», oppure «Fai schifo! Levati dalle palle!»

Potreste prendere qualunque band e creare una teoria tutta vostra. È divertente. Di recente è persino uscito un libro che parlava dei Beatles e concludeva – ormai avrete capito – che facevano schifo. Per cui, anziché un keynote speech, ho pensato che forse questo dovrebbe essere un key notes speech, un discorso che tocca tante note-chiave, o forse un discorso con tanti punti di vista diversi. Sto esagerando, ma non troppo. E ora che ho messo le mani avanti con questa premessa, mi appresto cautamente a continuare.

Comunque sia, è fantastico essere in una città con diecimila band, o quante sono... qualcuno sa il numero esatto? Dai, sono tante, no? Alla fine del ’64, quando ho preso in mano una chitarra per la prima volta, una cosa del genere sarebbe sembrata irrealizzabile, pura fantasia adolescenziale, innanzitutto perché era proprio impossibile da un punto di vista numerico. A quei tempi non c’erano abbastanza chitarre. Non ne avevano ancora costruite così tante, punto e basta. Avremmo dovuto dividercele.

Di chitarristi ce n’erano pochi, e per lo più era gente uscita dalle scuole di musica. C’erano poche band in generale e, almeno fino all’arrivo dei Beatles, tendevano tutte a suonare musica strumentale. E non c’era poi tanta musica da suonare. Quando ho preso in mano una chitarra per la prima volta, c’erano solo dieci anni di rock a cui attingere. Come se tutta la musica pop che abbiamo a disposizione oggi fosse solo quella prodotta dal 2002 in poi.
Quando ero adolescente, la volta in cui ho visto più band radunate nello stesso posto è stata al Keyport Matawan Roller Drome, dove venti gruppi si davano battaglia all’ultimo sangue. A quell’epoca c’era un’infinità di stili che si accavallavano, e ti poteva capitare di trovare un gruppo vocale doo-wop con ciuffettoni pompadour e completi tutti uguali, e subito dopo la nostra band che suonava una versione garage di Mystic Eyes dei Them, e subito dopo ancora un supergruppo soul con tredici componenti. Ma non era niente in confronto a ciò che sta accadendo in questo preciso istante per le strade di Austin, Texas.
Ed è incredibile essere di nuovo qui. 

A Austin mi sono sempre divertito da matti sin dagli anni Settanta, con Jim Franklin e l’Armadillo World Headquarters. È molto affascinante assistere all’evoluzione della musica che amo da tutta una vita. Il pop è diventato un linguaggio nuovo, una forza culturale, un movimento sociale. Anzi, una serie di linguaggi nuovi, di forze culturali, di movimenti sociali che hanno ispirato e rivitalizzato la seconda metà del Ventesimo secolo, e l’alba di quello attuale. Voglio dire, chi avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stato un presidente sassofonista, o un presidente cantante soul?

Quando abbiamo cominciato, per un musicista rock avere trent’anni era impensabile. Bill Haley manteneva relativamente segreta la sua vera età. Per cui, quando Danny & the Juniors cantavano Rock and Roll Is Here to Stay, non avevano idea di quanto cazzo avessero ragione. Roba da far spavento. Di questi tempi, quando guardo dal palco, mi trovo a fissare tre generazioni negli occhi; e il pop continua ancora oggi a svolgere la sua funzione primaria di musica per i giovani, di allegro spunto di dibattito, e di argomento principe per lunghe nottate alcoliche passate a litigare con Steve van Zandt su chi spacca più culi di tutti.

Ci sono un’infinità di sottogeneri e di mode: two–tone, acid rock, alternative dance, alternative metal, alternative rock, art punk, art rock, avant-garde metal, black metal, black and death metal, christian metal, heavy metal, funk metal, bland metal, medieval metal, indie metal, death metal melodico, black metal melodico, metalcore, hardcore, hardcore elettronico, folk punk, folk rock, pop punk, brit pop, grunge, sad core, surf music, rock psichedelico, punk rock, hip hop, rap rock, rap metal, Nintendocore… eh?
Sul serio, qualcuno mi spieghi cos’è il Nintendocore. E poi rock noir, shock rock, skate punk, noise core, noise pop, noise rock, pagan rock, paisley underground, indie pop, indie rock, heartland rock, roots rock, samba rock, screamo–emo, shoegaze, stoner rock, swamp pop, synth pop, rock contro il comunismo, garage rock, blues rock, death and roll, lo–fi, jangle pop, folk music. Dopodiché, aggiungete neo e post a tutto quel che ho appena detto, e ricominciate da capo. Ah sì, e il rock and roll.

E sta succedendo tutto adesso, porco cazzo, in questa città, in questo momento. Per uno che si è reso conto che gli U2 sono probabilmente l’ultima band di cui si ricorderà i nomi  di tutti e quattro i membri, è una cosa impressionante. Forse il commento più profetico che mi è capitato di leggere sulla musica rock nell’ultimo quarto di secolo è quello di Lester Bangs in occasione della morte di Elvis. Nel 1977 Lester Bangs disse che Elvis rischiava di essere l’ultima cosa su cui ci saremmo trovati tutti d’accordo... Public Enemy esclusi.
Da quel momento in poi era ognuno per sé: a voi i vostri eroi, a me i miei. Il centro del vostro mondo poteva essere Iggy Pop, o Joni Mitchell, o magari Dylan. Il mio potevano essere i KISS o i Pearl Jam, ma non saremmo più riusciti a lanciarci uno sguardo d’intesa reciproco, a farci avvicinare da una musica comune. E il suo articolo si chiudeva così: «Quindi, invece di dire addio a Elvis, io dico addio a voi».

Anche se questa cosa è stata dimostrata un milione di volte, eccoci qui in una città con migliaia di band, ognuna con un suo stile, una sua filosofia, una sua canzone. E credo che i migliori tra loro siano convinti di avere il potere di ribaltare dall’interno la profezia di Lester, e annullarla. Per cui, adesso che i dischi su cui registravo le mie prime canzoni hanno ceduto il passo a un mucchio di uno e di zero, adesso che porto nel taschino della camicia tutti i dischi che ho mai comprato da quando avevo tredici anni, mi piacerebbe parlarvi dell’unica cosa che è rimasta coerente in tutto questo tempo, la genesi e il potere della creatività, il potere del cantautore, o per meglio dire del compositore, o anche, semplicemente, del creatore. Che tu faccia musica dance, folk americano, rap o elettronica, tutto dipende da come metti insieme ciò che fai. Non importa quali elementi usi. La purezza dell’espressione e dell’esperienza umana non è confinata nelle chitarre, negli amplificatori, nei turntable, nei microchip. Non c’è un modo giusto, un modo puro, di farlo. Si fa e basta.
Viviamo in un mondo postautentico. E oggi l’autenticità è una casa degli specchi. In fin dei conti, tutto si riduce a quel che porti con te quando le luci si abbassano: i tuoi maestri, le tue influenze, la tua storia personale. E ciò che conta davvero è il potere e lo scopo della tua musica.

Ecco perché oggi vorrei parlare un po’ di come sono riuscito a mettere insieme ciò che ho fatto, nella speranza che possa tornare utile, anche solo un po’, a qualche musicista che stasera dovrà sudare in uno dei tanti club della città. E dato che siamo nell’anno del centenario di Woody Guthrie, e che questo è l’evento centrale della South by Southwest Conference, parlerò un po’ anche del mio sviluppo musicale, e di come, dove e perché si è intrecciato con quello di Woody.

All’inizio, ogni musicista vive il suo momento di genesi. Per voi potrebbero essere stati i Sex Pistols, o Madonna, o i Public Enemy. Qualunque cosa vi abbia fornito la spinta iniziale per l’azione. Per me è stato il 1956, Elvis e l’Ed Sullivan Show. Fu la sera in cui capii che anche un bianco poteva creare qualcosa di magico, che non era inevitabile finire condizionati e limitati dall’ambiente in cui si cresceva, dal proprio aspetto, o da un contesto sociale opprimente. Era possibile evocare il potere della propria immaginazione e trasformare il proprio io.  

E parlo di un ben preciso tipo di trasformazione, la trasformazione in un nuovo io che in qualunque altro momento della storia americana sarebbe sembrato difficile creare, se non impossibile. Ai miei figli dico sempre che hanno avuto fortuna a nascere nell’era della riproducibilità tecnologica, altrimenti loro vivrebbero nel retro di un furgone e io avrei in testa un cappello da giullare. È tutta questione di tempismo. L’avvento della televisione negli anni Cinquanta, con la sua diffusione dell’informazione visiva, ha cambiato il mondo proprio come internet ha fatto negli ultimi venti anni.
 
Badate bene, non era solo l’aspetto di Elvis, ma era il modo in cui si muoveva a far impazzire la gente, a farla infuriare, a portarla a picchi di estasi urlante o di sdegno scandalizzato. Merito della televisione. Tentarono anche di censurarlo dalla vita in giù, perché si riusciva a vedere quel che gli succedeva nei pantaloni. Elvis è stato il primo uomo moderno del Ventesimo secolo, il precursore della rivoluzione sessuale, della rivoluzione dei diritti civili, figlio della stessa Memphis di Martin Luther King, creatore di un’arte fondamentale e outsider che sarebbe stata accolta nella cultura popolare mainstream.
Elvis e la televisione ci hanno dato pieno accesso a un linguaggio nuovo, a una nuova forma di comunicazione, un nuovo modo d’essere, un nuovo modo di apparire, un nuovo modo di pensare: al sesso, alla razza, all’identità, alla vita; un nuovo modo di essere americani, di essere umani; e un nuovo modo di ascoltare musica. Non appena Elvis si diffuse nell’etere, non appena tutti ebbero modo di sentirlo e vederlo in azione, fu impossibile rimettere il genio nella lampada. Da quel momento la distinzione divenne chiara: di là il passato, di qua il presente, e proprio davanti ai vostri occhi un futuro che veniva forgiato al calore bianco del rockabilly.
 
Per cui, una settimana dopo, ispirato dalla passione nei pantaloni di Elvis, le mie piccole dita di seienne si aggrapparono per la prima volta al manico di una chitarra noleggiata da Mike Deal’s Music di Freehold, New Jersey. Ma erano troppo piccole, le mie dita. Un fallimento con la F maiuscola. E allora mi limitai a battere sulla chitarra con la mano. Battevo, battevo... davanti allo specchio, ovviamente. Lo faccio ancora. Voi no? Dai, su, bisogna sempre tener d’occhio come ci si muove. È vero o no?
 
Ma prima ancora di Elvis, il mio mondo aveva già iniziato a prender forma grazie alla radiolina con altoparlante mono da sei pollici che stava in cima al nostro frigo. Mia madre adorava la musica, e ci ha cresciuti a suon di pop radiofonico. E così, ogni mattina, tra le otto e le otto e mezza, mentre seppellivo di zucchero i miei Sugar Pops, la radio sussurrava doo-wop e pop delle origini nelle mie giovani e impressionabili orecchie. Il doo-wop, la musica più sensuale mai composta, il suono del sesso grezzo, delle calze di seta che sfregano sulle fodere dei sedili posteriori, il suono di reggiseni slacciati all’unisono in tutti gli Stati Uniti, di suadenti bugie sussurrate in orecchie profumate di Tabu, il suono dei rossetti sbavati, dei lembi di camicia tirati fuori dai pantaloni, del mascara che cola, delle lacrime sul tuo cuscino, dei segreti mormorati nella quiete della notte, sulle gradinate dei campetti, nelle mense buie dei dormitori studenteschi. La colonna sonora delle vostre incredibili, meravigliose camminate notturne di ritorno a casa dopo il ballo, chiappe indolenzite e palle gonfie da scoppiare, ma oh! Era un dolore così bello.
 
Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, il doo-wop sgorgava dalle radio fin dentro le stazioni di servizio, le fabbriche, le strade, le sale da biliardo... i templi della vita e del mistero nella mia cittadina. E regolarmente venivo rapito dalla sua semplice progressione di accordi. Non c’è una chitarra qui da qualche parte? Qualcuno ne ha una?

[inizia a suonare la chitarra e canta i versi iniziali di
Backstreets]

One soft infested summer, me and Terry became friends...

 
Deriva tutto da lì. A ogni modo, di lì a poco le mie orecchie tredicenni furono investite dal pop degli anni sessanta. Oltre a Johnny Cash, l’altro Uomo in Nero era Roy Orbison. Era l’autentico maestro di quella temutissima apocalisse romantica che sapevi si sarebbe abbattuta su di te dopo aver sussurrato «ti amo» alla tua nuova ragazza. Precipitavi, sempre più giù. Roy era lo sfigato fallito più fico che si fosse mai visto. Con quegli occhiali neri come fondi di bottiglie di Coca e un’estensione vocale di tre ottave, affondava il coltello nel ventre caldo delle tue insicurezze di adolescente e sembrava ci provasse gusto.
Già solo i titoli: Crying, It’s Over, Running Scared. Proprio così: la paranoia, oh, la paranoia. Cantava la tragica inconoscibilità delle donne. Era torturato dalla pelle morbida, dai maglioni d’angora, dalla bellezza, dalla morte... proprio come noi. Ma cantava anche di come era stato portato a vette di beatitudine quasi inesprimibile da quelle stesse cose che lo torturavano. Ah, crudele ironia.

E per quei pochi momenti, Roy ti rivelava che di tutto quel dolore, quella rovina, quel crepacuore, era valsa la pena. E fu allora che capii, miei giovani cantautori, fu la saggezza a rivelarmelo: la vita è tragedia, rotta soltanto da qualche momento di beatitudine ultraterrena che la rende sopportabile. Avevo ragione a metà: quella non era la vita, era la musica pop.

Ma a ventiquattro anni, chi la vedeva la differenza? E allora mi misi in cammino. Poi arrivò Spector col suo Wall of Sound. Il grosso dell’opera di Phil si può descrivere con il titolo di una delle sue produzioni meno conosciute, He Hit Me (It Felt Like a Kiss). I dischi di Phil erano ai limiti del caos, erano violenza ricoperta da un velo di zucchero e cantata dalle stesse ragazze che mandavano il buon vecchio Roy a imbottirsi di antidepressivi. Se Roy era l’opera lirica, Phil era una sinfonia: piccoli orgasmi di tre minuti seguiti dall’oblio.
E la più grande lezione di Phil è stata il suono. Il suono è un linguaggio a sé. Voglio dire, la prima cosa che vi viene in mente quando pensate a Phil Spector è [imita con la voce un groove di batteria]. Non c’era bisogno di altro. E poi, la British Invasion. La mia prima vera chitarra... finalmente cominciai a impararla. E stavolta era diverso, stavolta fu un terremoto. 
Quattro ragazzi, che suonavano e cantavano e si scrivevano le canzoni da sé. Non ci sarebbe mai più stato un produttore musicale indipendente dal cantante, un cantante che non scriveva, un autore che non cantava. Il modo di fare le cose cambiò. I Beatles erano fichi. Erano classici, formali, e davano l’idea di un’unità indipendente che poteva essere uscita dal tuo garage. La copertina di «Meet the Beatles», con quei quattro visi in primo piano. Ricordo di averli visti da Newberry’s. Era la prima cosa che vedevo quando entravo in quel piccolo emporio. Non c’erano negozi di dischi. Non c’erano abbastanza dischi, credo, a quei tempi. C’era solo un piccolo scaffale accanto ai giocattoli, con qualche disco esposto.
E ricordo di essere entrato di corsa e di aver visto la copertina di quel disco, quei quattro volti. Sembravano mute divinità dell’Olimpo. Era come se il futuro ti guardasse dritto in faccia. Mi ricordo di aver pensato, «Troppo fico. Non riuscirò mai ad arrivarci, mai». E poi su una fanzine trovai una foto dei Beatles ad Amburgo. Avevano le giacche di pelle e i ciuffi imbrillantinati, avevano i brufoli in faccia. E pensai «Aspetta un po’, questi sono uguali ai ragazzi con cui sono cresciuto, l’unica differenza è che sono mezze calzette di Liverpool. Quindi, se gli togli le giacche Nehru e il caschetto, questi quattro non sono altro che ragazzini. Molto più fichi di me, ok, ma ragazzini. Ci sarà pure un modo per arrivare da qui a lì».
 
Poi, per me, fu il momento degli Animals. Per alcuni gli Animals erano solo uno dei tanti ottimi gruppi beat degli anni Sessanta. Ma per me furono una rivelazione. Non avevo mai sentito dischi che ostentavano una coscienza di classe così matura. We Gotta Get Out of This Placeaveva questo riff di basso spettacolare, questo [suona la linea di basso di We Gotta Get Out of This Place]... come un orologio, un orologio che segnava il tempo.
[Suona e canta We Gotta Get Out of This Place]

In this dirty old part of the city, where the sun refused to shine.
People tell me there ain’t no sense in tryin’.
My little girl, you’re so young and pretty.
One thing I know is true,
You’ll be dead before your time is due, this I know.
See my daddy in bed and dying.
See his hair turning grey.
He’s been working and slaving his life away, yes, I know.
It’s been work – every day
Just work – every day
It’s been work, work, work, work.
We gotta get out of this place
If it’s the last thing we ever do
We gotta get out of this place
Girl, there’s a better life for me and you.
Yes, I know it’s true.

Ecco, qua dentro ci sono tutte le canzoni che ho mai scritto. Già. Tutte quante. E non scherzo. C’è Born to Run, Born in the USA, tutto quel che ho fatto negli ultimi quarant’anni, compresi i pezzi nuovi. Ma questa canzone mi ha colpito nel profondo. Era la prima volta che ascoltavo alla radio qualcosa che mi sembrava rispecchiare tutta la mia vita, la mia infanzia. E l’altra cosa fantastica degli Animals era che non ce n’era uno bello. Nemmeno uno. Erano considerati uno dei gruppi più brutti nella storia del rock and roll.
 
Ed era un’ottima cosa, questa. Era ottima per me, perché all’epoca mi facevo schifo. E non erano carini, non cercavano di accattivarsi il favore di nessuno. Erano l’aggressività personificata. La vita è mia, faccio quello che mi pare. Erano crudeli. Erano crudeli, e questa cosa era liberatoria da morire. Da morire. Vedevi Eric Burdon, sembrava tuo padre rinsecchito e con una parrucca in testa. Non ha mai, mai avuto un viso da ragazzino. Ha sempre avuto un viso da adulto in miniatura.
E non sapeva ballare. Gli mettevano un vestito elegante, era come metterlo addosso a un gorilla. Si vedeva benissimo che pensava «Che cazzo è ‘sta merda?». Non lo voleva. E poi aveva quella voce, sembrava, non so, il lupo cattivo, una roba del genere... e quella voce usciva da un ragazzino di diciassette, diciott’anni. Non so come fosse possibile. Ma la loro crudeltà mi sembrava liberatoria da morire. Com’era quel verso fantastico di It’s My Life? «È dura sfondare in questo mondo, le cose belle sono state tutte prese». E poi, «Anche se sono vestito di stracci, un giorno girerò in pelliccia, stammi bene a sentire. Io cavalcherò il serpente. Ho chiuso con le ore passate a sudarmi l’affitto». E poi quel meraviglioso «È la mia vita. Dimostrami che sbaglio, feriscimi di tanto in tanto. Feriscimi. Ma un giorno ti tratterò da regina». Fantastico.
 
E poi avevano quel nome. Era un nome molto diverso da quello dei Beatles, degli Herman’s Hermits, di Freddie and the Dreamers. Era un nome che non perdona, definitivo, irrevocabile. Te lo sputavano in piena faccia. Era il nome più sfrontato e maleducato possibile per una band, almeno fino all’arrivo dei Sex Pistols.
Badlands, Prove It All Night... «Darkness on the Edge of Town» trasudava Animals da tutti i pori. Ragazzi, adesso state ben attenti. Vi faccio vedere come si fa. Ho preso Don’t Let me Be Misunderstood,
[Canta e suona l’attacco di Don’t Let Me Be Misunderstood]

Dan, dadadan, dadadah,

Da da da da dah,
Dan, dadadan, dadadah,
Da da da da dah,
[Continua a cantare la melodia di Don’t Let Me Be Misunderstood ma inizia a suonare gli accordi di Badlands]

Dan, dadadan, dadadah,

Da da da da dah,
Dan, dadadan, dadadah,
Da da da da dah.

Cazzo, è lo stesso riff! Ascoltate, ragazzi, ascoltate come si esegue un furto con successo. «Darkness» era influenzato anche dall’esplosione del punk di quegli anni. Uscii e andai a comprarmi tutti i dischi, tutti i dischi punk delle origini, presi «Anarchy in the UK» e «God Save the Queen», e i Sex Pistols facevano una paura fottuta. Facevano tremare la terra, letteralmente. Tanti gruppi riuscivano a essere scioccanti, ma far paura era tutta un’altra cosa. Pochi, pochissimi gruppi rock riuscivano a fare davvero paura. Ed era una grande qualità, era parte della loro grande bellezza.
Erano coraggiosi, e ti lanciavano una sfida, e ti rendevano coraggioso a tua volta, e gran parte di quell’energia confluì nel sottotesto di «Darkness». «Darkness» l’ho scritta nel 1977, e quella musica era appena nata, e chiunque avesse un paio d’orecchie non poteva ignorarla. Avevo amici che la ignoravano, e si sbagliavano di grosso, perché quella era una sfida che non si poteva ignorare.
Certo, anche i film mi ispiravano, ma questo è un altro discorso. E poi, la musica soul. È importantissima. La grinta operaia della musica soul.

[Canta
Soul Man]

I was brought up on a backstreet
I learned how to love before I could eat.

Ora, anche se personalmente ho imparato a mangiare molto prima di imparare ad amare, io capivo benissimo di cosa si stava parlando. Era la musica della grinta e della determinazione… della depressione, della chiesa, della Terra, e dei paradisi intrisi di sesso. Era la musica del sudore, una fradicia richiesta di piacere e rispetto. Era musica adulta, cantata dagli uomini e dalle donne del soul, non da qualche idolo delle ragazzine.

E poi arrivarono le ambiziose sonorità della Motown, tutte seta e paillettes. Ed erano più melliflue ma non per questo meno potenti di quelle della Stax. C’è uno splendido pezzo soul a sfondo sociale di Curtis Mayfield & the Impressions, We’re a Winner: keep on pushin’… Dischi fantastici, fantastici, che riempivano l’etere in un’epoca in cui ne avevi un bisogno fottuto. Un bisogno fottuto.
A Woman’s Got Soul: che disco fantastico, per le donne. It’s All Right, la colonna sonora del movimento per i diritti civili. E fu lì, in mezzo a quegli artisti afroamericani, che imparai il mio mestiere. Si imparava a scrivere. Si imparava ad arrangiare. Si imparava a distinguere tra quello che importava e quello che non importava. Si imparava a riconoscere il suono di una produzione ben fatta. Si imparava a gestire una band. Si imparava a guidare una band. Quegli uomini e quelle donne erano e rimangono i miei maestri. Arrivato a vent’anni passai migliaia di nottate a mettere in pratica i loro insegnamenti nei club e nei bar della zona, cercando di affinare le mie capacità. 

Firmai un contratto come cantautore acustico, ma ero un lupo travestito da agnello. Firmai con John Hammond per la Columbia Records, insieme a Elliott Murphy, John Prine, Loudon Wainwright III. Eravamo tutti nuovi Dylan.

E il vecchio Dylan aveva solo trent’anni. Quindi non si capisce come mai ci fosse bisogno di un cazzo di nuovo Dylan, no? Ma era così che andavano le cose ai tempi. Trent’anni era… be’, insomma. Ma per arrivare a questo traguardo mi ci erano voluti anni e anni di concerti nei bar. Mi rivolgo ai giovani musicisti: imparate a stare sul palco, sera dopo sera dopo sera. Il pubblico si ricorderà di voi. Biglietti uguale contratti.
 
Queste capacità mi hanno fornito un grosso asso nella manica. E quando finalmente partivamo in tour, e ci giocavamo quell’asso, spaccavamo il mondo, perché era quello che mi avevano insegnato Sam Moore e James Brown. Non esiste una performance più bella di quella di James Brown che fa il culo a strisce ai Rolling Stones in TheTAMI Show. Scusate, amici, scusate. Gli Stones mi piacevano da impazzire, cazzo, ma James Brown... signori miei, eravate strafottuti. «Sì, penso che suonerò dopo James Brown. Mi potete per favore mettere in scaletta dopo James Brown?» No, cazzo. Scappa. Torna a casa. Lascia perdere, ritirati. Avevamo un bel rapporto, io e James Brown. Una sera andai a un suo concerto, e lui aveva sentito parlare di me, più o meno. Ero lì seduto tra il pubblico e all’improvviso lui annuncia: «Signore e signori, Magic Johnson», ed ecco che Magic Johnson sale sul palco. Poi «Signore e signori, Woody Harrelson», e quello sale sul palco. E io sono ancora lì seduto che guardo, e lui fa: «Signore e signori, Mister…, Mister…, Mister Born in the USA». E io mi rendo conto che non sapeva il mio nome, quindi scatto sul palco come un razzo!

È una cosa indescrivibile, stare sul palco accanto a James Brown... io ero tipo, «Ma che cazzo ci faccio qui?». È stato una tale ispirazione. James Brown è sottovalutato, anche cazzo ci faccio qui?». È stato una tale ispirazione. James Brown è sottovalutato, anche adesso, è sottovalutato. Lui è... lui è Èlvis. È Dylan.

Dylan, il primo a cantare la mia terra in un modo che mi sembrava autentico, non edulcorato. Se eri giovane negli anni cinquanta e sessanta, non vedevi che falsità a ogni passo. Ma non riuscivi a esprimerlo. All’epoca non c’era un linguaggio per dirlo. Si vedeva che c’era qualcosa che non andava, cazzo, ma non si riusciva a trovare le parole. Bob è arrivato e ci ha dato quelle parole. Ci ha dato quelle canzoni. E la prima cosa che ci ha chiesto è stata: «How does it feel? Man, how does it feel to be on your own?». E se eri un ragazzo nel 1965, stai pur certo che solo lo eri eccome, perché i tuoi genitori, Dio li benedica, non riuscivano a capire tutti gli incredibili cambiamenti in corso. Eri da solo, senza una casa. Dylan ci ha dato le parole per comprendere il nostro cuore.
Non ti trattava come un bambino. Ti trattava come un adulto. Ha fatto un passo indietro, ha preso la posta del gioco a cui tutti stavamo giocando, e ce l’ha messa davanti agli occhi. Non l’ho mai dimenticato. Bob è il padre del mio Paese, musicalmente parlando, ora e per sempre. E lo ringrazio.

Il trucco, il trucco fantastico che ho imparato da Bob è che, ancor oggi, lui fa una cosa che nessuno, nessun altro al mondo sa fare. Canta, verso dopo verso dopo verso, e non annoia mai. È quasi impossibile. Ma lui non parlava di una cosa sola, parlava di tutto quello che era importante, e lo faceva in un colpo solo, in ogni canzone, quasi.
E ci riusciva. Io dissi «Bello, mi piace. Ci provo». Solo che a quell’epoca mi stavo avvicinando ai trenta, e ovviamente avevo la classica preoccupazione: diventare più maturo. Volevo scrivere musica che avrei potuto suonare ancora alla veneranda età di, che so, quarant’anni. Volevo crescere. Volevo piegare la forma-canzone che conoscevo per creare qualcosa che rispondesse alle mie preoccupazioni adulte. Ed è così che ho scoperto la musica country.
Ricordo che ero seduto nel mio appartamento e continuavo a metter su il «Greatest Hits» di Hank Williams. E cercavo di decifrare il suo codice, perché all’inizio non riuscivo proprio a farmelo piacere. Mi sembrava irritante, antiquato. Ma c’era quella dura voce country, e io continuo a metter su il disco, e c’era quella strumentazione spartana. E pian piano le mie orecchie si sono abituate alla sua meravigliosa semplicità, alla sua oscurità, profondità. E Hank Williams, da antiquato che era, diventò vivo e vegeto proprio davanti ai miei occhi.
E per un po’, alla fine degli anni Settanta, vissi di quello. Nel country ho trovato un blues adulto, le storie di lavoratori e lavoratrici che cercavo, l’amara presa di coscienza di quella posta in gioco disposta davanti a noi. My Bucket’s Got A Hole in It, I’ll Never Get Out of This World Alive, Lost Higway, quella splendida canzone di Charlie Rich.
[Canta Life Has Its Little Ups and Downs]

Like ponies on a merry–go–round
No one grabs a brass ring every time
But she don’t mind

[Parla] Oh cazzo, come faceva...?

[Canta
Life Has Its Little Ups and Downs]:

She wears a gold ring on her finger
And it’s mine.

Dio santo, con questa rischio sempre di commuovermi. Era troppo. Era il blues dei lavoratori, una stoica presa di coscienza della realtà di tutti i giorni, delle piccole e grandi cose che ti permettono di mettere un piede davanti all’altro e tirare avanti. Mi resi conto di essere attratto dal fatalismo del country. Era riflessivo. Era divertente. Era intenso. Ma era anche piuttosto fatalista. Il domani non sembrava affatto roseo.
Il country non era quasi mai politicamente arrabbiato, e quasi mai politicamente critico. E mi resi conto che quel fatalismo aveva in sé qualcosa di tossico. Se il rock and roll era un weekend di sette giorni, il country era la bisboccia del sabato sera seguita da una pesantissima Sunday Morning Coming Down. Colpa, colpa, senso di colpa, ho mandato tutto a puttane. Oh, Dio. Ma, come dice la canzone: «Mi daresti un’altra possibilità?». Il country era così. Il country sembrava non volersi mai chiedere perché. Sembrava che parlasse solo di agire e poi morire, scopare e poi piangere, ubriacarsi e poi ritentare. Poi, come ebbe a dire Jerry Lee Lewis, la personificazione vivente sia del country che del rock, «ho toccato il fondo e mi sto impegnando per scendere più giù».
Era il blues del lavoratore fin nel midollo, duro e puro... lo adoravo. Ma io volevo una risposta alla domanda di Hank Williams: «Perché c’è un buco nel mio secchio? Perché?».

Quindi, oltre al divertimento e alla voglia di far casino tipici di una band da bar, la E Street Band portava avanti una ricerca d’identità, che divenne una parte fondamentale della mia musica. Per sua natura, il country mi attirava. Il country era provinciale, come me. Io non ero uno di città, non ero particolarmente bohémien né troppo fichetto. Ero una specie di hippy per caso, perché erano quegli anni lì. Mi sentivo una persona piuttosto comune, con un dono non del tutto comune. E mi sono fatto un culo così per coltivarlo. E il country parlava della verità che emanava dal tuo sudore, dal bar del tuo paese, dal tuo negozio all’angolo. Teneva un occhio fisso al blues del passato, ai piaceri del presente e forse alla domenica, il domani. E riuscii a fare un sacco di strada, ma mi mancava ancora qualcosa. E quando avevo ormai quasi trent’anni mi misi a leggere Woody Guthrie, A Life, di Joe Klein. E mentre lo leggevo, mi si aprì tutto un mondo di possibilità precedenti a Dylan, che anzi avevano ispirato anche lui per alcune delle sue opere migliori. Lo sguardo di Woody era... era fisso sui duri tempi d’oggi. Ma in un certo senso guardava anche oltre l’orizzonte: c’era qualcosa, là. Il mondo di Woody era un mondo dove il fatalismo veniva temperato da un pragmatico idealismo. Era un mondo dove sbattere in faccia la verità ai potenti non era mai futile, indipendentemente dal risultato.

Perché continuiamo a parlare di Woody dopo tanti anni? Non ha mai scritto una hit, non ha mai vinto un disco di platino, non ha mai suonato in uno stadio, non è mai apparso sulla copertina di Rolling Stone. Ma rimane uno spettro nel sistema, un enorme spettro nel nostro sistema. E credo che sia perché le canzoni di Woody, il grosso della sua opera, hanno sempre tentato di rispondere alla domanda di Hank Williams: perché c’è un buco nel nostro secchio? È una domanda su cui mi arrovello da un sacco di tempo.

Per cui, quando avevo poco più di trent’anni, la sua voce iniziò a parlarmi nel profondo. E iniziammo a mettere in scaletta una cover di This Land is Your Land. Ma sapevo che non sarei mai stato Woody Guthrie. A me piaceva Elvis, mi piaceva troppo la Pink Cadillac. Mi piaceva la semplicità delle hit pop, quel loro senso di noncuranza e provvisorietà. Mi piaceva fare casino a mille. E, in un certo senso, mi piaceva essere una star, con tutto il lusso e i comfort che comportava. Mi ero già avviato da un bel pezzo su una strada molto diversa.

E fu così che quattro anni fa mi ritrovai in una situazione insolita. Era una fredda giornata d’inverno, e mi trovavo a fianco di Pete Seeger, e c’erano meno quattro gradi. Pete era venuto fino a Washington. Pete si porta un banjo ovunque vada – in metro, in autobus – e quel giorno me lo sono visto arrivare in camicia. Io gli ho detto: «Dio santo, Pete, mettiti un cappotto, si gela». Ha novant’anni, è l’incarnazione vivente del retaggio di Woody. E di fronte a noi c’era qualche centinaio di migliaia di nostri compatrioti. Dietro di noi c’era il Lincoln Memorial, e alla nostra destra un Presidente appena eletto. Ed eravamo lì per cantare This Land is Your Land di fronte a tutti quegli americani. E Pete insisteva, «Dobbiamo cantare tutti i versi, dobbiamo cantarli tutti, ti dico. Non ne possiamo lasciare fuori nemmeno uno». E io dicevo «Non lo so, Pete, c’è solo...». Avevamo, tipo, una folla di bambini di sei anni proprio alle nostre spalle. E lui fa, «No, dobbiamo cantare tutti i versi, tutti». E così facemmo.
[Suona e canta This Land is Your Land]

As I was walking
I saw a sign there
And on that sign said
We’re trespassing
And on the other side
It didn’t say nothing
That side was made
For you and me.
This land is your land
This land is my land

[Parla] Questa canzone va cantata in coro.
[Suona e canta This Land is Your Land. Il pubblico canta in coro]:
From California
To the New York island
From the Redwood Forest
To the Gulf Stream waters
This land was made for you and me

E fu così che quel giorno Pete e io, e generazioni di americani giovani e vecchi, di tutti i colori e di tutte le religioni, capimmo che a volte le cose che vengono da fuori riescono a intrufolarsi all’interno, per diventare parte del cuore pulsante della nazione. E quel giorno, quando cantammo quella canzone, gli americani – giovani e vecchi, bianchi e neri, di tutti gli orientamenti religiosi e politici – si ritrovarono uniti, per un breve istante, dalla poesia di Woody.
 
Quindi forse Lester Bangs non aveva del tutto ragione, perché questa sera siamo qui in questa città tutti insieme, vecchi e giovani musicisti, per celebrare, ciascuno a modo suo, quel senso di libertà che è il retaggio di Woody. Quindi fatevi sentire, musicisti, fatevi sentire. Aprite le orecchie e aprite il cuore. Non prendetevi troppo sul serio e prendetevi sul serio come la morte. Non preoccupatevi, e preoccupatevi da star male. Abbiate una fiducia di ferro in voi stessi, ma dubitate sempre: vi tiene svegli e all’erta. Pensate sempre di essere i figli di puttana più fichi della città, e pensate sempre che fate schifo!

In questo modo rimarrete onesti. Rimarrete onesti. Cercate di tenere sempre vive nel cuore e nella mente due idee completamente contradditorie. Se riuscirete a non diventare matti, vi ritroverete più forti. E restate tosti, restate affamati, restate vivi. E quando stasera uscirete sul palco per fare casino, fate conto che sia tutto ciò che abbiamo. E poi ricordate, è solo rock and roll. Adesso credo proprio che andrò ad ascoltarmi un po’ di black death metal.
Grazie.


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