Per noi umili servitori del Regno del Rock, noi schiavi inutili, noi soldati semplici delle più sperdute trincee, noi Springsteeniani incalliti ed inguaribili, alcuni nomi, alcune cifre, alcune date, hanno sempre un significato quasi mistico, religioso, le si pronuncia con timore reverenziale, temendo di passare per blasfemi.
Noi, qui, nelle retrovie della periferia dell'Impero, noi che qualcuno era a Zurigo, altri al primo San Siro, molti altri sono arrivati alla spicciolata gli anni seguenti e ancora continuano ad arrivare, abbiamo una concezione tutta nostra del tempo, dello spazio, della storia e della geografia.
Ad esempio, se parlando di Bruce ci capita di leggere 1978 già drizziamo le orecchie, se poi a quell'anno si aggiungono nomi come ROXY THEATRE ecco che la vista ci si appanna, i sensi si fanno più deboli, il cuore rallenta.
Ad un giorno solo dal quarantesimo anniversario di uno dei concerti più famosi nella iconografia springsteeniana, è stato pubblicato come "Official Bootleg", con un audio meraviglioso ed in versione integrale il concerto al Roxy, Hollywood.
Il 1978 fa parte di quei momenti della storia del Rock dove gli eroi erano pochi, ma uno solo sembrava in grado di risultare vincitore.
Bruce nel 1978 era quanto di più vicino all'idea di una Divinità Musicale in carne ed ossa; contro le intemperanze giovanili del punk, che lui assorbiva e sputava fuori con rabbia ancor maggiore, contro il manierismo sterile e masturbatorio del prog, gli assoli di 35\40 minuti, lui rispondeva torturando la sua chitarra prima di esplodere in Prove it all night.
La bandiera del Classic Rock era saldamente nelle sue mani e lui era al momento il migliore che potesse farla sventolare ancora, fiera ed orgogliosa.
Nel 1978 Bruce stava uscendo da un incubo durato 3 anni, nei quali aveva visto la sua musica allontanarsi da lui per colpa di un manager disonesto, aveva visto quella carriera su cui si era giocato tutto sé stesso rischiare di scomparire dietro udienze di tribunale e lungaggini assassine per chi ha un pubblico che aspetta sue nuove pubblicazioni.
3 anni di scrittura compulsiva, amara, furibonda, 3 anni di disillusione, quella di cui poi riempirà il suo capolavoro, anch'esso fresco quarantenne, Darkness on the edge of Town.
3 anni durante i quali però, sul palco, lui ed il suo manipolo di valorosi rinascevano ogni sera, fino a rischiare di morire di nuovo, stavolta in senso meno poetico e più fisico, dopo le interminabili maratone rock con le quali voleva affermare di esserci, di esistere ancora, di essere ancora alla ricerca del modo per andarsene dalla città dei perdenti di cui cantava appunto 3 anni prima.
Abbiamo un po' di rock and roll per voi stasera, dice salito sul palco del Roxy, la sera di 40 anni fa.
E parte con Rave On, Buddy Holly, certo, perchè signori, stasera si fa la storia e per farla bisogna prima conoscerla e riconoscere chi sono i padri fondatori, di questa storia.
Prigionieri? nemmeno uno.
Dalle radici al presente, nemmeno il tempo di un respiro ed ecco Badlands, la novità, la canzone che apre il nuovo disco, la rabbia che viene sputata fuori, mentre i valorosi alle sue spalle non perdono una battuta ed il sax urla forte la sua chiamata alle armi.
Un secondo di silenzio ed eccoli, gli spiriti, quelli che infestano il New Jersey ed i sogni di tanti ragazzi, ecco quella carrellata di umanità ai margini, nascosta, che nella notte americana esce allo scoperto per vivere, finalmente.
Eccola quella Crazy Janey parte costante dei nostri pensieri più carnali, ritroviamoci al fiume stanotte, siamo troppo ubriachi per mentirci ed ognuno di noi ha bisogno di qualcuno che ci dica "Tesoro, lascia che ti guarisca".
Non lasciamo che l'oscurità ci inghiotta e ci nasconda ancora, noi spiriti della notte dobbiamo continuare a correre, per raggiungere quella collina. Darkness è rallentata e rabbiosa, la voce passa attraverso i denti come un ringhio, la belva è ferita ma la catena sta per spezzarsi.
Saliamo, che nessuno ci faccia domande, che nessuno ci guardi troppo a lungo. quelli fortunati, nati sotto una buona stella, fanno altri percorsi, da qui passano solo quelli disposti a combattere per davvero.
Ancora nuovi brani, con la stanza di Candy che sembra irraggiungibile, in fondo ad un corridoio che ci ricorda nuovamente il buio, scostando sconosciuti che vogliono rubarcela, avanziamo, la batteria aumenta come il battito cardiaco, la porta è ad un passo, chiudi gli occhi, hai ancora molto da imparare, prima di raggiungere i mondi nascosti che splendono.
Si tira il fiato, For you parla di amore, in quel modo dylaniano, sghimbescio ed obliquo tipico dei suoi primi lavori, quelli con dentro talmente tanti personaggi, tante storie, tante emozioni che il risultato è un calderone tanto incomprensibile quanto affascinante.
A ricordarci che l'amore, come la vita, ha due facce e non è detto che a noi tocchi in sorte quella migliore, ecco Point Blank, tradimento, delusione, sogni infranti, la sua vita che scorre dentro queste note, come veleno distillato, di cui ancora non esiste antidoto.
Di fronte al tradimento, l'unica vittoria è affermare la propria identità, davanti alla falsità, l'unico strumento a nostra disposizione è la nostra coerenza e la nostra cocciuta testardaggine. Non sono un ragazzo, sono un uomo e come tale devi trattarmi ed è per questo che io mi dirigo senza paura dritto nella tempesta, perchè sarà il mio essere uomo a farmici uscire a testa altissima.
Cosa ci resta, cos'altro può fare un povero ragazzo se non suonare in una rock band? Ci resta una chitarra, tre accordi e la verità, ci resta la voglia di sbatterla fino a farla sanguinare, ci resta la rabbia da sfogare sulle sue corde, ci resta la possibilità di provarci, sempre, di provarci tutta la notte.
Ci resta una strada, lunga come solo quelle americane possono esserle, ci resta una striscia d'asfalto su cui gareggiare, per sottolineare la differenza tra noi e quelli che semplicemente rinunciano a vivere e muoiono, poco a poco, pezzo a pezzo.
Il pianoforte di Roy illumina quell'asfalto, lo rende percorribile e sul finale lo allunga a dismisura, perchè non debba finire mai, come vorremmo non finisse mai lui di muovere le sue dita sui tasti.
La prima parte del concerto si chiude con Thunder Road, il piano di Roy non esce da Racing ma entra direttamente nel cortile di Mary ed ecco, la promessa, l'obbiettivo, la voglia di farcela, che tornano prepotenti ed imbattibili alla ribalta. Possiamo farcela, se corriamo, dobbiamo farcela, con lei sul sedile di fianco ed un sassofonista nero di due metri tra le cui braccia scivolare a fine canzone.
Poi si continua, carne e ideali, sesso e sogni, She's the one che nasce da Bo Diddley e dentro la sua musica finisce, per una scopata memorabile, Adam che ci ricorda una volta di più quali sono i nostri peccati e le nostre fiamme e quanto ci debba costare liberarci da esse.
La tensione universale di It's hard, dove la debolezza dell'uomo è messa a dura prova, dove la voglia di andare avanti subisce mille ostacoli.
Si arriva alla sarabanda finale di Rosalita, ma prima è giusto tornare alla Storia, quella che ci trascina dentro a questo teatro allora come oggi, quella che in un pomeriggio caldissimo di luglio ti fa mandare moglie e figlie al mare per restare 3 ore solo con lei. Elvis, certo, chi altro?
La bussola del rock, da sempre la sua bussola personale, traccia nuovamente la mappa dove si svolge questa storia, quella che da Tupelo arriva ad oggi, passando per il Roxy, il Cavern Club, l'Apollo e Dio solo sa quanti altri posti dentro i quali ancora oggi aleggia lo spirito del Rock.
Bruce che canta Elvis è qualcosa che va ben oltre l'omaggio e la cover, è Amore, è Devozione, è fedeltà ad un verbo ed impegno a tramandarlo.
Bruce che canta Elvis è come avere due top model nel letto che ti pregano di trombarle, entrambe, subito.
E poi arriva Rosie, arriva e scappa con noi, in un posto dove non ci possano trovare genitori isterici e discografici bugiardi, a pretty little place in southern California, un posto dove le chitarre suonano giorno e notte, il paradiso del rock, dove Elvis dice Messa ogni giorno.
Su Indipendence Day non esiste parola che non abbia già detto o lacrima che non abbia pianto, qui viene presentata senza che sia mai stata pubblicata ufficialmente, lo farà solo due anni dopo, viene suonata leggermente più lenta e così facendo le pugnalate che mi arrivano tra cuore e stomaco sono più profonde e dolorose, perchè vorrei, con tutto me stesso fare in modo che a me non facciano quello che ho visto fare a lui.
Ancora rock, ancora sesso e fuga, sogni, corse, la notte che appartiene agli amanti ed un sole su cui camminare, un giorno, ma fino ad allora lasciamo tutto da parte per un attimo o per tre ore e facciamoci investire dalla musica e facciamoci lavare dalla sua acqua benedetta e peccaminosa, purificatrice e densa come la passione.
Due cover chiudono la serata, perchè se sei consapevole di far parte di una storia, non hai nessun timore a citarla, apertamente, quindi dopo Buddy ed Elvis, ecco la black music, il soul ed infine i Beatles, con la miglior party song mai incisa.
Twist and shout chiude in gloria, ancora non si capisce come abbia fatto il teatro a restare in piedi, la band saluta, io immagino il pubblico stranito, che guarda verso il palco quasi a chiedersi se sia successo davvero, quello che hanno visto e sentito succedere nelle precedenti 3 ore.
La storia del rock si è fermata ad Hollywood, giusto 40 anni fa, il respiro lentamente riprende il suo ritmo, il battito del cuore torna regolare, la tastiera è di nuovo visibile, gli occhi sono asciutti, ma la pelle d'oca è ancora alta, nonostante il caldo afoso.
Da qualche parte lassù o in un atollo sperduto delle Hawaii, un tizio posa le cuffie, si sistema il ciuffo, indossa il suo giubbotto di pelle e soddisfatto dopo quanto ascoltato, sale sulla sua Harley e riprende il suo vagabondaggio.
Qui, nella periferia dell'impero, qui, nella trincea dei superstiti, il rancio oggi sembrava molto buono, quasi come fosse un giorno di festa.